· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La resilienza dell’Africa tra crescita demografica e rivendicazioni delle libertà civili

Una società plurale
in trasformazione

 Una società plurale in trasformazione   QUO-194
25 agosto 2023

Ciò che spesso sfugge all’osservatore occidentale, il quale in modo improvvido azzarda giudizi o valutazioni sul continente africano, è il diverso posizionamento storico in chiave sociopolitica rispetto all’Europa. In altre parole, si dimentica non solo che la stragrande maggioranza degli Stati africani è giovane, nel senso che ha meno di un secolo di storia, ma che tali Stati si trovano nella necessità di realizzare un’identità comune preservando le diversità delle rispettive galassie etnico e culturali. Non è un compito di facile soluzione e la sfida esige un impegno gravoso. Si dimentica, infatti, che quelli europei hanno impiegato secoli per realizzare l’integrazione, passando attraverso processi di nazionalizzazione forzosa, di costruzione di un’identità nazionale, prima di diventare quello che sono oggi effettivamente.

Secondo gli ultimi dati forniti da «Ethonologue», in Africa ci sarebbero oltre 2.000 lingue, il che significa che vi sarebbero altrettante etnie (veri e propri popoli) a cui corrispondono gli idiomi parlati. Indubbiamente, il colonialismo non ha aiutato e sono dunque legittime le critiche mosse alla mappa politica africana in riferimento all’artificiosità dei confini, l’aver pertanto raggruppato popolazioni differenti all’interno di uno stesso centro politico-amministrativo. Bisogna allo stesso tempo riconoscere che stigmatizzare le responsabilità coloniali non significa negare il problema di fondo legato all’attualità e che cioè sarebbe impensabile ipotizzare oggi un continente africano suddiviso in tanti piccoli Stati quanti sono le comunità etniche africane. Anche ammesso che fosse plausibile la parcellizzazione territoriale, sarebbero poi sostenibili questi micro Stati sotto la loro dimensione amministrativa e governativa? Se da una parte, dunque, è giusto riflettere sulla complessità dello scenario africano, dall’altra la spiegazione e soprattutto la soluzione non deve mai essere semplicistica e riduttiva.

Le istituzioni internazionali ben fanno nel ricordare alle classi dirigenti africane che la democratizzazione delle loro piattaforme statuali è sinonimo di emancipazione oltre che di promozione delle libertà e garanzia di una convivenza pacifica, legittimata dalla partecipazione collettiva alla discussione dei problemi. Dall’altra parte, però, si dimentica che le divisioni gerarchie identitarie che sottendono, ad esempio, alle feroci competizioni sulle risorse minerarie, sono sintomatiche del fallimento dello Stato incentrato sul modello «occidentale» inteso come «primo attore del dramma dello sviluppo economico che non ha attecchito o addirittura è collassato». Rifacendosi al classico paradigma weberiano, l’indimenticabile storico Basil Davidson, nel suo saggio The Black Man’s Burden. Africa and the Curse of the Nation State, (Londra 1992), da entusiasta sostenitore delle indipendenze, considerò giustamente lo «Stato-Nazione» la maledizione imposta all’Africa quale strumento di continua volontà di dominio.

Ma andiamo per ordine. Se nel periodo delle lotte anticoloniali la rivendicazione del concetto di nazione era la condizione che metteva le popolazioni africane su un piano di parità con le altre nel mondo, pur tenendo conto della notevole differenza fra le organizzazioni politiche nazionaliste africane, l’ispirazione ideologica nei differenti Paesi — il socialismo africano, la négritude, l’ujamaa, la nozione del solidarismo comunitario — presentava tratti comuni. Al centro dei progetti di costruzione nazionale c’era la rivalutazione dell’originalità delle proprie radici storiche, la storia negata dalla colonizzazione intesa non come ritorno alle tradizioni, ma come segno d’identità culturale da recuperare e valorizzare per procedere alla modernizzazione politica ed economica. Sulla carta, tenendo anche conto della geopolitica degli anni Sessanta che vide molti Paesi africani associarsi al cartello dei non-allineati, tutto sembrava rispondere alle istanze della grande rivoluzione emancipatoria della modernità, cioè alla triade di libertà (da sudditi a cittadini), uguaglianza (razziale, sociale ed economica) e solidarietà (come recupero della tradizione comunitaria africana).

Ma non fu così perché lo Stato-Nazione, così come venne descritto da Davidson, risultò presto essere una forma istituzionale di imitazione occidentale che si tradusse, nel contesto africano, in governi personali e autocratici, fondati sul nepotismo e la corruzione, esercitati a favore di alcune componenti etniche contro le altre. Non a caso è capitato che il gruppo etnico di appartenenza di questo o quel presidente di turno si trovasse in una condizione di privilegio rispetto ad altre etnie. A questo riguardo, Davidson stigmatizzò le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella cooptazione di élite autoctone che si prestano, ancora oggi, al mantenimento di rapporti economici ineguali seppure informali. Il tutto attraverso milizie private e compagnie multinazionali, finalizzate allo sfruttamento delle risorse naturali e del tutto indipendenti da qualsiasi forma di consenso o legittimazione popolare. In questo contesto, in diversi Paesi dell’Africa Subsahariana si è gradualmente palesata la mannaia dell’etnicismo utilizzato da non poche élite per assicurarsi il consenso in quanto mezzo veloce, efficace e sicuro per aggregare e mobilitare gli elettori. Nel frattempo, la crisi economica planetaria — a seguito della pandemia prima e della guerra russo-ucraina poi — sta penalizzando fortemente gli Stati africani in riferimento soprattutto alla vexata quaestio del debito pubblico. Anche quelli più consolidati, stanno perdendo o cedono concordemente alcune delle prerogative di sovranità costretti come sono a svendere alcuni asset strategici (land-grabbing docet). Ecco che allora gli Stati si rivelano spesso asimmetrici, soprattutto dal punto di vista delle diseguaglianze sociali, a volte di matrice etnica, ma non solo.

Eppure, in un’Africa segnata da conflitti, dall’esclusione sociale in cui è palese l’arricchimento e il privilegio di pochi in posizione di potere e la deriva sempre più inarrestabile di molti verso l’indigenza, occorre riconoscere che il collasso degli Stati africani, ritualmente previsto e annunciato da molti, non si è verificato, anche se le politiche riformiste per rendere più efficienti le funzioni statali sono ancora insoddisfacenti. A questo proposito è illuminante il pensiero del sociologo camerunese Achille Mbembe, tra i maggiori teorici del post-colonialismo, in Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata (Meltemi Editore, 2018), una riflessione sulla necessità di cogliere nel presente, nelle attuali trasformazioni, le opportunità per liberarsi finalmente dalla pesante eredità del passato. Ponendo l’enfasi sui grandi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni in Africa, dice che «adesso» si sta profilando per le nuove generazioni africane l’occasione di riappropriarsi di quella forza creativa e produttiva che aveva contraddistinto il periodo immediatamente post-coloniale.

Mbembe esorta in particolare la società civile a ripensare la propria posizione all’interno della comunità internazionale per ricostruirsi una struttura culturale, intellettuale, sociale e politica nuova e libera dai condizionamenti. L’intento è quello di promuovere una società universalistica, in cui ogni comunità trovi spazio in un fluido scambio di contaminazione con l’esterno, realizzando quello che lo stesso Mbembe definisce «afropolitismo», una società plurale e in continua trasformazione, basata sulla libera circolazione e apertura al cambiamento, che si lascia trascinare dalle correnti spontanee delle culture. A pensarci bene, «non è vero che l’occidentalizzazione del mondo è un processo univoco nel quale gli africani subiscono processi dall’alto», come scrive l’intellettuale congolese Jean Léonard Touadi. Infatti, chiunque viaggia nel continente, non restando nelle stanze ovattate degli alberghi o nei resort turistici dei parchi, si accorge della vitalità e creatività africana. «Inserendosi negli interstizi lasciati dai fallimenti dell’Africa ufficiale — prosegue Touadi — le società africane hanno imparato ad “ottimizzare l’anarchia” contribuendo a creare un nuovo cosmos dal caos delle macerie delle post-indipendenze». D’altronde, sono decenni, come abbiamo già detto, che le Cassandre annunciano l’implosione del continente. Eppure l’Africa è viva e vegeta. «Sono sempre più convinto — conclude Touadi — che l’Africa, elaborando intelligenti strategia di resistenza, saprà trovare strade inedite per coniugare il satellite al tamburo».

È evidente che la posta in gioco è alta e che l’Africa ha i propri tempi. Ma la sua incredibile resilienza, dimostrata anche dalla costante crescita demografica e dalla rivendicazione da parte delle giovani generazioni delle libertà civili, fa ben sperare. Si tratta di una trasformazione già in atto che nel perimetro del mondo globalizzato nessuno potrà arrestare.

di Giulio Albanese