· Città del Vaticano ·

Diario ucraino/6

Le bombe su Kharkiv
che hanno cambiato tutto

 Le bombe su Kharkiv che hanno cambiato tutto  QUO-194
25 agosto 2023

Kharkiv, città icona del Novecento, torna alla ribalta della storia. Le quattro battaglie che, durante la seconda guerra mondiale, la videro contesa fra l’Armata Rossa e i nazisti, furono tragiche tappe di una corsa attraverso le rovine, purtroppo non ancora terminata.

Pur essendo stata fondata dai cosacchi, ha sempre orbitato intorno alla Russia, al punto che nella rivoluzione bolscevica giocò un ruolo determinante diventando capitale della Repubblica Socialista. Ancora oggi i suoi palazzi in continua ristrutturazione, i grandi viali e le molte statue ricordano la presenza sovietica. I vecchi tram guidati dalle donne, visto che gli uomini sono quasi tutti al fronte, così come le pareti scalcinate di certe case, le anziane venditrici di ortaggi lungo le strade, ci riportano indietro nel tempo, anche se i cartelloni pubblicitari, la nuova trionfante civiltà informatica, i tantissimi giovani uguali a quelli di tante altre parti del mondo farebbero pensare il contrario.

Le bombe russe hanno cambiato tutto. Me lo conferma Arthur, ventenne volontario del Centro di sostegno Karazin, posto nei sotterranei dell’omonima università e rivolto a ragazzi che non possono frequentare la scuola, il quale non riesce a trattenere il sentimento di risentimento che nutre nei confronti degli invasori. In periferia visito le stanze di Emmaus, specializzate nel recupero dei disabili. A Vysokyi, nei sobborghi della metropoli, ammiro il lavoro delle professoresse a favore dei bambini sfollati, alcuni dei quali dopo la catastrofe bellica non hanno più alcun appoggio familiare e vengono dati in adozione. Tutti mi raccontano il bisogno dei più piccoli di ricostruire le relazioni perdute. Queste strutture godono dei finanziamenti dell’Avsi e di altre associazioni italiane.

Non possiamo dimenticare che a Kharkiv i missili sono caduti nel centro urbano. Ci sono ancora le buche nelle strade. Gli allarmi si susseguono ormai non soltanto di notte. I posti di blocco si moltiplicano. Eppure la gente entra ed esce dai negozi, fa la spesa, mangia al ristorante. Io vado con la mente a Mario Rigoni Stern che qui trascorse uno dei momenti più significativi della sua vita, durante la ritirata degli alpini italiani di Russia.

Nel 1971, rivedendo questi posti insieme alla moglie Anna Maria, scrisse alcune indimenticabili pagine comprese nel Ritorno sul Don: «Mi piaceva andare lungo una vecchia strada, forse la più vecchia e intatta e paesana via di questa Char’hov rifatta nuova dopo tante battaglie. Su questa mia cara strada, dei gradini scendono verso le porte illuminate dalle botteghe seminterrate: lì sotto è caldo, è intimo. Entro in tutte: vendono libri, stampe, tabacco, thè, ciambelle, bottoni. Sono riuscito a trovare un pacchetto di machorka, il vecchio e rustico tabacco ucraino che noi e i nostri paesani russi riuscivano a fumare nei lager…».

Cammino seguendo la sua traccia. Non posso fare a meno di chiedermi cosa avrebbe detto il sergente se avesse potuto assistere al riaccendersi degli antichi fuochi negli stessi luoghi. «Qui a Char’hov vi era un grande ospedale italiano dove molti nostri compagni sono morti…». Così mi metto alla ricerca del posto da lui citato e lo trovo, grazie all’aiuto di Anatoli, fra Danilevskij e Trinklera: un grande distretto sanitario ancora oggi attivo. Vorrei anche fotografarlo, ma i militari di guardia mi dicono che non è possibile. Allora idealmente rendo omaggio ai caduti: quelli di ieri mischiati a quelli di oggi.

Cosa possiamo fare noi con i poveri mezzi di cui disponiamo? Me lo dice suor Olexsia, della chiesa greco-ortodossa, che presta servizio nella cattedrale di San Nicola facendo da “mamma” ai bambini rifugiati: dobbiamo stare vicino a chi soffre. Scritta così, sembra una frase edificante, ma se a pronunciarla è lei, con il carisma pedagogico giuseppino, che nei giorni caldi del primo attacco russo non ha esitato a mettersi al volante di un’auto per trasportare viveri e vestiario dalla Polonia fino a qui, allora è tutta un’altra cosa.

di Eraldo Affinati