· Città del Vaticano ·

(s)Punti di vista
Appunti su Hannah Arendt, Paul Ricœur e Jacques Derrida

La forza sovversiva
del perdono

 La forza sovversiva del perdono  QUO-193
24 agosto 2023

Di che parlano le nostre ferite? Cosa significa il dire-del-trauma? Sono la voce sottile della nostra fragilità. Il nostro essere vulnerabili parla la lingua della ferita. Le nostre ferite dicono il (dis)ordine del male, inflitto e subito. La civiltà, attraverso i suoi svariati dispositivi di ortopedia sociale, induce però all’occultamento delle ferite, procura i rimedi palliativi necessari al nascondimento dei traumi. Insieme alla dimensione anestetizzante, al trattamento narcotico delle ferite, il (dis)ordine sociale offre un trattamento cosmetico dei traumi: si tratta di un doppio processo, insieme anestetizzante e cosmetico, di disciplina sociale. Correggere le ferite causate dal sistema di relazioni sociali imperante rendendone insensibile il dolore e l’afflizione.

Il risultato traumatico del vivere sociale viene rimosso evitando che le ferite vengano alla luce. Ogni fenomeno traumatico è stigmatizzato come dis-ordinato, ogni manifestazione di una ferita viene sanzionata come a-normale, punibile e indegna di essere riconosciuta come traccia del male. L’ordine — cosmo, cosmesi — sociale non si lascia mettere in discussione dalle ferite che provocano le sue relazioni articolate dalla violenza e dall’ingiustizia. Ha bisogno di velare la deforme bruttezza della sofferenza che crea, mantenendo l’illusione di armonia sociale. Ogni vita traumatizzata dalla brutale prepotenza dei rapporti sociali strutturati nell’iniquità viene esclusa, rigettata dalla razionalità dominante che, pur di mantenere la propria coerenza e coesione, scarta le ferite come un elemento anomalo.

Nel dilagante (dis)ordine sociale l’esperienza del dolore, di cui parlano le vite ferite dal male, è stata depoliticizzata e allontanata dalla prospettiva etica, spostandosi sull’ambito della psicopolitica di tipico stampo neoliberista. Esiste tuttavia una parola in grado di restituire all’esperienza umana tutto lo spessore della dimensione morale che la contraddistingue: perdono. Le tracce di dolore che il sistema tende sistematicamente a rimuovere sono il sordo clamore che si esprime, eloquente, attraverso le ferite inflitte alle sue vittime dal corso violento della storia. Il dire-del-perdono dispone ad una lettura della storia dal suo rovescio: se il perdono non è oblio, incrocia il problema morale, e anche politico, posto in termini di ingiunzione; non dimenticare, «per continuare a onorare le vittime della violenza storica», come afferma P. Ricœur (Ricordare, dimenticare, perdonare, Bologna, Il Mulino, 2012, pagine 144).

Nel discorrere del logos la parola rende ordinato il mondo dandone senso. Si tratta di decodificare il senso che la parola-del-perdono offre alla vita nel mondo. Qual è il dire-del-perdono? Una parola di interruzione del (dis)ordine esistente. Perché interruzione, la parola-perdono è azione, non mera locuzione. Diversamente da un qualsiasi comportamento umano, è nella natura stessa dell’azione la potenza di «interrompere ciò che è comunemente accettato e irrompere nello straordinario», come sostiene H. Arendt (Vita activa, Milano, Bompiani, 2019, pagine 444), contrassegnando la singolare peculiarità politica che caratterizza la condizione umana. La parola-del-perdono custodisce la forza sovversiva di un “dire” capace di un profondo quanto radicale sconvolgimento del (dis)ordine costituito.

Nonostante l’uso equivoco di perdonabile-scusabile, «letteralmente discolpabile, sgravato, esonerato da un debito condonato», come direbbe J. Derrida (Perdonare, Milano, Raffaello Cortina, 2004, pagine 106), perdonare è diverso dallo scusarsi: “chiedere scusa” comporta un’istanza per “togliere l’accusa”, sminuendo la consapevolezza di aver fatto un torto a qualcuno. Il dire-del-perdono si regge invece sulla consapevole responsabilità di aver offeso qualcuno e di aver bisogno del dono della vittima: per poter guarire la memoria ferita dalla colpa è necessario richiamarsi alla logica del dono. Si entra così nel vivo della questione del perdono: di che si tratta? Rimettere? Assolvere? Dimenticare? Mandare in prescrizione? La questione del perdono struttura la complessa problematica della giustizia e della pace: è possibile il perdono senza giustizia? Intralcia il perdono la via maestra della giustizia verso la pace? Non c’è comunità umana che non debba fare i conti con questa bruciante questione del perdono di fronte all’incalzante domanda di pace che soggiace alle profonde aspirazioni sociali di giustizia.

Per Derrida, appunto, il dire-del-perdono prende senso, «trova la sua possibilità solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile e a perdonare l’imperdonabile». Proprio dove la storia del perdono finisce, dove infatti vi è l’imperdonabile come inespiabile sembra desumersi il perdono come impossibile. Nella storia lacerata dal macigno spietato della violenza e dei soprusi l’istanza di perdono interroga la condizione umana sconvolgendo in maniera radicale i cardini del sistema sociale dello scambio, domandando — come sostiene ancora Derrida — «se il perdono non cominci laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile». Questa aporia della parola-del-perdono risulta implacabilmente esigente: «il perdono, se ce n’è, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile — e quindi fare l’impossibile».

Il logos-del-perdono struttura allora l’esperienza temporale della memoria in quanto consente la rilettura del passato articolandone un’interpretazione di senso in chiave etica. Contrario all’astuzia dell’oblio di fuga, il perdono — sostiene Ricœur — «richiede un sovrappiù di lavoro della memoria». Il dire-del-perdono legge le ferite come tracce della responsabilità morale: il lavoro-del-perdono «non verte sugli avvenimenti, bensì sulla colpa — afferma Ricœur — il cui peso paralizza la memoria e, per estensione, la capacità di proiettarsi in modo creativo nel futuro». In questo senso il carattere performativo della parola-del-perdono appare — come sostiene Arendt — un «rimedio contro l’irreversibilità» del passato, di quel che è stato e non è più. Su questa esperienza della perdita irreversibile, del non-poter-agire sul passato — criterio decisivo della passeità, come dice Ricœur — il lavoro-del-perdono rappresenta, secondo Arendt, «la redenzione possibile dell’aporia dell’irreversibilità». Senza il dire-del-perdono, affrancati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, «la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto — dice Arendt — da cui non potremmo mai riprenderci».

Pertanto, il dire del perdono tronca il “dire” egemonico dell’edonismo consumistico che declina l’esistenza esclusivamente attraverso la grammatica narcisistica di un io autoreferenziale. Emancipatorio dal fardello dell’io, la parola-del-perdono, infatti, dipende da un’articolazione plurale, dalla presenza e dall’agire degli altri: «nessuno può perdonare se stesso», afferma Arendt, confermando che il perdono «presuppone la mediazione di un’altra coscienza, quella della vittima — come sostiene Ricœur — la sola abilitata a perdonare».

La memoria ferita dai torti commessi a qualcuno sa che il perdono si può soltanto chiedere, affrontando ancora il rischio del rifiuto, che nella logica della gratuità contraddistingue il dono in quanto privo di garanzie di reciprocità.

Il dire-del-perdono, quanto più lontano possa apparire dalla facile e banale fuga dell’oblio, testimonia quindi la nervatura di un’azione di giustizia nella sua maggiore densità. Costitutivo di un noi eticamente fondato nella giustizia, la parola-del-perdono è un “dire” in grado di restituire alle articolazioni concettuali del pensiero etico-politico un’esperienza che la tradizione occidentale ha sistematicamente escluso dal discorso pubblico. Aspetti centrali e nevralgici dell’insegnamento di Gesù di Nazareth, come questo del perdono, sono «esperienze politiche autentiche» — come afferma Arendt — capaci di andare alla radice dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non come cancellazioni di un bilancio contabile — conclude Ricœur —, ma come l’arduo e paziente lavoro di sciogliere dei nodi.

di Diego Flores