· Città del Vaticano ·

Diario ucraino/2

La preghiera
per un Paese martoriato

 La preghiera per un Paese martoriato  QUO-190
21 agosto 2023

Ogni mattina alle ore 9.00, dall’inizio della guerra con la Russia, in piazza Bucovina, a Černivci, una banda militare suona l’inno intitolato “Una preghiera per l’Ucraina”. Appena la musica si diffonde tutto intorno gli automobilisti spengono i motori, i passanti si mettono sull’attenti, nessuno fiata. Pochi minuti di assoluto silenzio sotto la statua di Taras Ševčenko, padre spirituale della lingua e della letteratura nazionale, durante i quali non senti volare una mosca. Terminata l’esecuzione, il traffico riprende.

Vivo in prima persona questo momento di grande intensità in cui ho l’impressione di veder scorrere davanti a me la storia dell’Ucraina. Cimmeri, sciti, sarmati e goti furono popoli che si stanziarono a nord del Mar Nero. Lungo i fiumi Dvina e Dnepr giunsero i variaghi, mercanti e guerrieri scandinavi, vichinghi, che strinsero accordi con i capi locali, si convertirono al cristianesimo ed elessero a Kyiv un metropolita che fondò il principato, la cosiddetta Rus’ di Kyiv. L’invasione mongola del 1240 stravolse tutto consegnando la steppa alle corone di Polonia e Lituania, unite in una confederazione. Dal 1500 i turchi ottomani occuparono le coste del Mar Nero e il mar d’Azov.

Mentre andiamo verso il centro di distribuzione dei viveri posto nei locali del Tribunale civile, il passato sembra tracimare da un antro misterioso. Lidia, Caterina e Oleh hanno organizzato le consegne secondo una scansione perfetta: i profughi arrivano, prendono il kit con i generi di prima necessità, ringraziano e se ne vanno. Nel 1600 emersero i cosacchi (dal turco kazak, libero) gruppi di contadini-guerrieri che, sulle rive del Dnepr, si ribellarono ai feudatari polacchi e lituani, incarnando l’anima ucraina, ma vennero poi assoggettati dall’impero zarista. L’Ucraina divenne così la “piccola Russia”. Caterina II nel 1784 conquistò la Crimea, fondò il porto di Odessa, russificando il territorio. La prima guerra mondiale vide l’Ucraina al centro della rivoluzione bolscevica. Nel 1923 entrò a far parte dell’Unione Sovietica, peraltro quale socio fondatore, che continuò il tentativo zarista di decapitare ogni ambizione nazionalista. La resistenza contadina alla collettivizzazione venne repressa con la carestia che provocò milioni di morti.

Il flusso dei profughi non conosce soste: in grande maggioranza si tratta di donne con bambini piccoli, una sfoggia la maglietta la cui scritta tradisce il suo sogno più autentico, “Perfect place”, diverse di loro magari forse verranno in Italia, ma ci sono anche molti anziani, sradicati dalle case in cui stavano nelle regioni orientali e costretti a trasferirsi qui nella speranza di sfuggire ai bombardamenti più pericolosi. Una coppia, in particolare, suscita la mia attenzione: lei si appoggia a un sostegno, non può più camminare in modo autonomo, indossa un improbabile cappellino da baseball; lui è stanco, rugoso, tremolante. Li avvicino per conoscerli meglio. Hanno entrambi 85 anni, si chiamano Alina e Aleksander. Da bambini vissero la seconda guerra mondiale, al tempo in cui l’Ucraina venne occupata dai nazisti che vi compirono stragi immani (Baby Yar a Kyiv, 33.000 ebrei uccisi in pochi giorni). Il Paese restò poi all’interno dell’Unione Sovietica fino alla sua dissoluzione.

Alina, perduti i suoi genitori, è cresciuta in orfanotrofio. Mai avrebbe pensato di dover riprovare da anziana le sensazioni di allora. Come se la guerra fosse tornata a cercarla, quasi alla fine della sua vita, per azzannarla ancora una volta, simile a un mostro che pensavamo sconfitto per sempre e invece rispunta dal pozzo nero. Shmuel Yosef Agnon, fondamentale romanziere ebreo galiziano emigrato in Israele, confidò una volta al giovane Aharon Appelfeld, altro grande narratore che nacque proprio a Černivci nel 1932, anch’egli rifugiato in Palestina dopo essere scampato alla Shoah: «Ogni scrittore deve avere la propria città, il proprio fiume, le proprie strade. Tu sei stato cacciato dalla tua città e dai villaggi dei tuoi padri, e invece di imparare da essi hai imparato dai boschi».

Con Alina e Aleksander la storia cessa di essere una pagina scritta e diventa carne viva, palpitante e dolorosa proprio di fronte a me. All’inizio della nostra breve conversazione, seduti sulla panchina del cortile dove i volontari regalano scatolette di tonno e kit igienico-sanitari, avevo bisogno dell’interprete, dall’ucraino all’inglese fino all’italiano, ma c’è stato un momento in cui gli occhi di Alina mi hanno rivelato l’essenziale. È stato quando le ho chiesto se volesse tornare nella sua casa distrutta. Mi ha guardato fisso e ha cominciato a piangere parlandomi in ucraino: pur non comprendendo ciò che diceva, capivo tutto. La piccola orfana giocava ancora dentro i suoi occhi acquosi.

di Eraldo Affinati