· Città del Vaticano ·

Diario ucraino/1

Oltre il confine

 Oltre  il confine  QUO-189
19 agosto 2023

Entriamo in Ucraina dalla frontiera rumena, nel bel mezzo della Bucovina, un tempo unita oggi spezzata fra Suceava e Cernivči. La regione che attraverso infatti dal 1775 al 1919 fece parte dell’impero austriaco; dal 1849 le venne riconosciuta la qualifica di autonomo Kronland, dipendente direttamente dalla Corona. Ed è, devo ammetterlo, un gran passaggio perché questo, a ben riflettere, ora più che mai, rappresenta il confine della Nato: dietro di noi pulsa l’Europa a stelle e strisce, dall’altra parte ringhia l’orso russo, in mezzo sta il Paese dei cosacchi con una identità che paradossalmente Putin, con quella che lui continua a chiamare operazione speciale, non ha fatto altro che rafforzare. Pare che all’indomani dell’attacco contro Kyiv del 24 febbraio 2022 centinaia di ragazzi abbiano cominciato a preparare le bottiglie molotov.

Prima di arrivare alla dogana attraverso un pezzo di Romania che farò fatica a dimenticare: Botosani, Leorda, Dorohoi sono piccoli agglomerati in mezzo alla pianura sterminata a perdita d’occhio. Si sente che laggiù, oltre il cielo e gli avvallamenti, comincia l’Asia. Carretti trainati da cavalli, bambini in bicicletta ai lati delle strade, animali randagi, uomini con la camicia sbottonata che vagano ai bordi dei marciapiedi, orti striminziti sul fianco delle abitazioni dirupate, poi tante villette unifamiliari in costruzione, probabile frutto delle rimesse degli immigrati. La dogana appare improvvisa dopo una curva stretta, le guardie sono ragazze giovanissime che ci intimano di non fotografare nulla: una forza glaciale filtra dai loro occhi chiari.

Nel furgone accanto a me siede una coppia col bambino: lui è italiano, lei sta tornando a casa; una signora non più giovane parla con il nostro autista; il passeggero silenzioso con ogni probabilità è un altro mio connazionale sposato con una donna di qua. I rapporti fra esseri umani hanno un modo tutto loro di superare gli steccati divisori. Mentre i funzionari controllano i nostri passaporti, due cagnetti vengono a scodinzolare, il bambino li accarezza, vorrebbe portarseli via, il tempo scorre lento, tutto sembra fermo ed io mi chiedo: finisce qui l’Europa? O presto si estenderà ancora più in là dove scorrono i grandi fiumi da sempre contesi dagli eserciti in lotta? Impossibile rispondere a questa domanda. Ma soltanto porsela lascia intendere l’enormità della posta in gioco.

Quando ripartiamo, appena duecento metri dopo, vedo un grande crocifisso di legno, le scritte in cirillico, diverse cupole di chiese ortodosse riverniciate di fresco. Andiamo nel cuore dell’antico Paese di Vladimir nella sera incipiente con il sole che rosseggia spavaldo dietro le colline, come se non volesse scomparire. Presto si diffondono le ombre. La signora scende al crocicchio dove l’aspettano i familiari: di certo in Italia si prende cura di qualche nostro anziano, ma chi si occuperà di lei fra una decina d’anni? L’abbraccio coi parenti è straziante.

La stazione in cui siamo diretti sta al centro di un parcheggio disordinato dove ci attendono i cooperanti del Cuamm, la rete dei medici missionari fondata nel 1959 da Francesco Canova e impegnata già dal 2014 negli aiuti umanitari nei confronti dei profughi interni provenienti dalle zone di guerra, spesso di lingua russa, accolti a migliaia nelle case di Černivci, finora non toccata dal conflitto in corso, anche se i missili volano non distanti da qui, sparati dalle navi del Mar Nero a getto continuo. Me lo dice Rocco, leccese, che gestisce la pizzeria Vesuvio, sposato con Nadia, una ventina di dipendenti, capace di cucinare le orecchiette insieme al boršč, usando la medesima cura certosina nella scelta mirata degli ingredienti.

Mentre ascolto i giovani cooperanti, Nicole, Martina e Lorenzo, tre ragazzi straordinari per determinazione e coerenza nelle scelte che hanno fatto, trattengo a stento l’emozione. È la mia prima volta in Ucraina: avrei voluto visitarla in tempo di pace, invece il destino mi ci ha portato adesso, ma forse in questo momento le parole del noto poeta Paul Celan, ebreo rumeno di lingua tedesca nato proprio qui nel 1920, risuonano con ulteriore forza evocativa. Stiamo parlando di uno dei più grandi lirici del suo secolo, morto suicida cinquantenne a Parigi, dai versi come lame taglienti, spesso incomprensibili, indecifrabili, eppure carichi di luce, oltre il loro stesso significato.

Mentre andiamo in albergo, prima del coprifuoco di mezzanotte, osservando i lampioni rotti, me ne vengono in mente alcuni: “L’occhio, buio: / come finestra di baracca”. Getto uno sguardo dietro gli edifici spogli e torno a ripercorrere i suoi pensieri: “Scarpate, ciglioni, desolati spiazzi, macerie”. Ascolto i timori degli allarmi che i cooperanti mi comunicano e mi sorprendo a sillabare: “Anche noi qui, nel vuoto, / siamo presso le bandiere”. Come non sentir palpitare nel luogo in cui Celan si formò, frequentando la rinomata università d’architettura viennese, la sua anima affranta? “Noi siamo vicini, Signore, / vicini, afferrabili.” Torna, dentro di me, l’immagine del Crocifisso che ho visto appena superata la frontiera: “Ed era sangue, era ciò che tu / hai versato, Signore”.

D’improvviso, in questa retrovia di guerra, incredibile rigurgito del Novecento, certe immagini consegnate dal poeta sembrano acquistare un senso pieno: “e giaci così e giochi con asce / finché tu al pari di queste sfavilli.” Perfino il grandioso epitaffio per François, composto nell’ottobre del 1953, in omaggio al primo figlio di Paul e Gisele, morto trenta ore dopo la nascita, assume una dimensione universale: “L’una e l’altra porta / del mondo, aperte: / aperta l’una e l’altra / da te, nella notte bifronte. / Le udiamo sbattere e sbattere, / noi portiamo l’indefinito, / portiamo quel Verde nel tuo Eterno”. 

di Eraldo Affinati