· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Per l’Africa la vera sfida è la ridistribuzione o la restituzione di ricchezze, poteri e responsabilità

Dal colonialismo
al neocolonialismo

 Dal colonialismo al neocolonialismo   QUO-188
18 agosto 2023

Quando si parla di Africa nelle cronache o nei dibattiti si fa riferimento molto spesso al colonialismo o a quella che è la sua versione riveduta e ulteriormente scorretta del cosiddetto neocolonialismo. Il recente colpo di stato avvenuto in Niger ha portato la questione alla ribalta soprattutto per le accuse mosse dalla giunta militare al potere nei confronti delle ingerenze straniere avvenute in questi anni. Il tema, in effetti, è di grande attualità e riguarda non solo l’Africa, ma anche vasti settori del cosiddetto Global South.

La geopolitica è d’altronde fortemente condizionata dal ruolo ricoperto un po’ a tutte le latitudini dai grandi attori presenti sulla scena internazionale. Ma andiamo per ordine. Il colonialismo inteso come la creazione di presidi oltremare e il loro sfruttamento a vantaggio della madrepatria deriva dal termine latino colonia. Nel suo senso letterale colonia è un insediamento di cittadini di uno Stato in un territorio lontano, anche se il termine non comporta sempre e necessariamente la presenza di coloni. In effetti come scriveva Philip Dearmond Curtin, in un celebre saggio dal titolo The Black Experience of Colonialism and Imperialism: «Il colonialismo è soprattutto un processo di acquisizione territoriale da parte di un popolo di un’altra cultura». Ecco che allora le dinamiche storiche di popoli che non avevano chiesto nulla al cosiddetto colonizzatore furono interrotte e deviate sulla scorta d’interessi che non erano i loro. In questa prospettiva, gli elementi distintivi del colonialismo furono essenzialmente due: la dominazione politica e la diversità culturale.

Dal punto di vista formale, le conquiste furono legittimate dal dinamismo delle società europee, dal loro presunto senso morale, dal voler farsi carico dei problemi dei continenti arretrati, dalla conseguente presunta civilizzazione delle popolazioni autoctone, anche se poi furono i fattori economici che alla fine scandirono i tempi e i modi delle conquiste. Sta di fatto che gradualmente si affermò l’imperialismo coloniale che celebrò i suoi fasti con la spartizione dell’Africa fra le potenze europee negli ultimi due-tre decenni dell’800. Il rapporto dell’Europa con l’Africa era in atto dal xv secolo con le esplorazioni del Portogallo e delle altre nazioni marittime a cui seguirono alcuni significativi insediamenti sulle coste africane a presidio della navigazione e del commercio e, soprattutto dal xvi secolo in poi, la tratta degli schiavi fra le due rive dell’Atlantico alla volta delle Americhe. D’altronde, riflettendo sulla ricerca storiografica, sono oggi ben noti gli interessi geopolitici, egemonici, economici e strategici che, in misura crescente, portarono le potenze coloniali del tempo, quasi sempre in conflitto tra loro, alla conquista di gran parte del resto del mondo e in particolare dell’Africa. S’innescò così lo Scramble for Africa, che invece di «corsa» forse sarebbe meglio tradurre in italiano con «parapiglia» o «strapazzo» per l’accaparramento delle terre e delle ricchezze vere o immaginate del continente.

La Conferenza di Berlino (1884-85), com’è noto, rappresentò il culmine di una spartizione che esigeva politicamente una sua legittimazione. Anche se poi, come rilevò pertinentemente Gian Paolo Calchi Novati in una delle sue ultime conferenze «la nomea dell’assise di Berlino come responsabile della spartizione dell’Africa non è giustificata, perché, a parte la ratifica della creatura di Leopoldo, il Congresso in sé non procedette a divisioni o attribuzioni». In effetti dei 38 articoli che compongono l’Atto finale dell’assise, solo due (il xxxiv e il xxxv ) riguardano specificamente la penetrazione coloniale e la spartizione dell’Africa. «In essi si prescrive che le potenze europee — commentò Calchi Novati — per vantare diritti sui territori africani, dovevano avere un titolo valido o insediarsi materialmente in un territorio, impegnarsi a esercitare la propria autorità dalla fascia costiera al retroterra corrispondente, notificare alle altre potenze firmatarie l’avvenuta occupazione o gli atti giuridici sottoscritti con i sovrani e capi locali. Per il resto, era tutto un inno alla difesa della libertà commerciale».

Ma allora cosa venne fuori a Berlino? Dietro le quinte, e non sulla carta, si concepì una sorta di spartizione che aprì la strada a una vera e propria competizione senza quartiere fra le potenze europee per assicurarsi le posizioni migliori. La conquista implicò il controllo fisico del territorio procedendo di consueto dalla costa verso l’interno. Possedimenti isolati vennero unificati con l’invasione dei territori adiacenti, con l’annessione di parti di Stati africani o con scambi e accordi fra le potenze coloniali. Ben presto il colonialismo venne percepito dalle popolazioni afro come vessatorio, nonostante la propaganda dei dominatori stranieri. Vennero così alla luce le dottrine visionarie del panafricanismo, con un programma dichiaratamente politico, e della negritudine, intesa come summa di sensibilità culturali, che funsero, a partire dalla diaspora africana in America e in Europa, da grandi contenitori di idee e iniziative per l’indipendenza dei territori africani.

Un precursore assoluto del panafricanismo fu Henry Sylvester Williams (1869-1911), originario di Trinidad, che nel 1900 convocò a Londra una conferenza sull’Africa in cui dovrebbe essere stato pronunciato per la prima volta il termine panafricanismo. Era sempre più evidente che la liberazione delle popolazioni afro era da intendersi come un evento culturale e sociale prim’ancora che razziale. Si giunse dopo alterne vicende, al termine della seconda guerra mondiale, alla decolonizzazione che però variò nella sua attuazione da Paese a Paese. In alcuni casi avvenne per vie politico-negoziali, e all’opposto si ricorse alla lotta armata. Sta di fatto che prima la guerra fredda, poi il crollo del muro di Berlino e oggi la crisi russo-ucraina, sono tutti fattori che con declinazioni diverse hanno comunque assoggettato progressivamente l’Africa a interessi stranieri legati in gran parte alle smisurate ricchezze del sottosuolo, fonti energetiche in primis. La crisi saheliana è emblematica a questo riguardo, come anche le tante guerre dimenticate che insanguinano la macroregione subsahariana.

L’azione predatoria, come ha ricordato Papa Francesco in occasione della sua recente visita a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, ha fatto sì che potentati stranieri, più o meno occulti, depredassero il continente delle sue immense ricchezze. «Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa!» ha esclamato. «Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Questo «colonialismo economico» — così lo ha definito il Pontefice — che avviene spesso con complicità locali, si procrastina nel tempo. Questa mercificazione della condizione umana rappresenta, nella cornice della globalizzazione, un peggioramento rispetto al passato. Il colonialismo tradizionale di per sé non era reductio ad unum, ma piuttosto governo delle differenze, spesso con modalità coercitive e violente, ma il neocolonialismo ha annullato ogni genere di varietà producendo solo e unicamente alterità. Un fenomeno che non solo ha determinato una crescente parcellizzazione dell’Africa in aree d’interesse, ma ha acuito le divisioni interne fomentando l’etnicismo.

Meglio sarebbe, come suggerisce Sophie Chautard nel suo saggio La géopolitique, parlare di aree culturali, che corrispondono a spazi a geometria variabile, con un tessuto comune e valori condivisi, in cui i simboli sono di volta in volta la lingua, la religione, i modi di vita, un certo progetto nazionale o comunitario, e in cui i confini non dividono ma sono anzi zone di sovrapposizione. Sono ben noti i drammi provocati dagli scontri etnici che in questi anni hanno insanguinato vasti settori dell’Africa subsahariana. A questo ha contribuito anche il fallimento delle ideologie terzomondiste e la loro sostituzione con il falso mito dell’identità, favorendo le divisioni, comunque motivate dalle burocrazie in loco e sfruttate dalle forze esterne per i loro disegni.

Papa Francesco ha ricordato che la nostra è una stagione senza precedenti perché la nostra «non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca». Pertanto, «siamo tutti sulla stessa barca» e soprattutto «nessuno si salva da solo». Guardando all’Africa si pone dunque la vera sfida del nostro tempo: la ridistribuzione (se non addirittura la restituzione) delle ricchezze, dei poteri e delle responsabilità. La strada che dovrebbe portare alla multipolarità è impervia per definizione, ma necessaria per tutti.

di Giulio Albanese