· Città del Vaticano ·

Papa Francesco in dialogo con gli artisti: «Un’amicizia che riparte»

La forza misteriosa
di un uomo deriso

 La forza misteriosa  di un uomo deriso   QUO-187
17 agosto 2023

Elogio dell’imperfezione e della «non-regolarità»


Ho atteso diversi giorni prima di mettermi a scrivere questo articolo. Avevo bisogno di tempo per oltrepassare la cortina dei «sono d’accordo», dei «sì, è proprio così» inevitabili di fronte a parole difficili da confutare, visto che l’esperienza elementare di qualunque artista è, né potrebbe non essere, quella descritta dal Santo Padre. Ma se si fosse trattato soltanto di parafrasare quelle parole, che nessun bisogno hanno di essere parafrasate, allora mi sarei defilato, accontentandomi di leggere e rileggere a mio esclusivo beneficio quel breve, bellissimo discorso che il Papa ha voluto rivolgere a tutti gli artisti, presenti e assenti.

Sentivo il bisogno di fare un passo oltre il contenuto più evidente delle parole del Papa per capire la ragione per cui proprio lui, il capo della Cristianità, non solo “il” Papa ma “questo” Papa, l’uomo che ogni giorno segna la via per la mia vita e per quella dei miei cari, le avesse dette, e il significato speciale che esse potevano avere per il fatto di essere state dette non da un filosofo o da un artista, ma proprio da lui.

Questa mattina, durante la messa, qualcosa ha cominciato a farsi più chiaro in me, mentre recitavo il Gloria: «Perché Tu solo il Santo, Tu solo il Signore, Tu solo l’Altissimo Gesù Cristo». E pensavo: tutta la Chiesa usa queste parole per riferirsi a un uomo morto in croce dopo essere stato deriso, flagellato, coronato di spine; un uomo morto come un criminale, tra gli sputi e gli scherni, tradito da uno dei suoi più cari amici e rinnegato da un altro. Quest’uomo massacrato, sfigurato dal dolore, quest’uomo che ha gridato «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» — lui, proprio lui è il Santo, il Signore, l’Altissimo, e queste parole passano attraverso le bocche di povere persone, miseri peccatori, non teologi, non uomini di scienza ma poveracci — poveracci che tuttavia dicono e pensano queste parole, queste grandi parole. Grandi e paradossali.

Confesso di non essere riuscito a pensare ad altro per tutta la celebrazione. Bene, proprio le parole del Gloria hanno gettato una luce nuova su quello che ci ha detto il Papa quando, per esempio, ha parlato della differenza tra armonia ed equilibrio. La differenza mi è stata evidente, si può dire, fin dall’infanzia, quando passando davanti a Palazzo Rucellai, a Firenze, mi domandavo senza trovare risposta perché quella facciata semplice, senza fronzoli, senza particolari pezzi di bravura, mi attirasse tanto. Poi un amico mi spiegò che i blocchi del rivestimento erano stati disposti, su progetto di Leon Battista Alberti, in modo irregolare, non simmetrico. Proprio questo sgarro alla disciplina della simmetria aveva permesso alla linea perfetta della facciata di emergere senza l’ostacolo di una simmetria troppo calcolata.

Ma quel gesto, quell’invenzione, che radice aveva? I greci non facevano così, e nemmeno i romani. Solo un’antropologia segnata dal cristianesimo può comprendere la profonda ragionevolezza di questa azione: introdurre uno squilibrio, un punto d’instabilità, affinché la vera stabilità, la vera armonia — un’armonia non più relegata alle dimensioni del nostro cervello — emerga come una nascita capace proprio a causa della sua sproporzione di sorprendere anzitutto lo stesso artista, come qualcosa di non visto (come diceva Jacques Derrida), di non aspettato.

Perché è “pensabile” che uno squilibrio renda possibile l’armonia?, che un lampo di (apparente) irrazionalità possa darci la pace?

Perché è accaduto, ecco perché: perché venne, come dice Péguy, il più grande disordine che si fosse mai visto, che era anche il più grande ordine che si fosse mai visto. Venne grazie a un uomo nato da Maria di Nazareth, a Betlemme di Giudea, un uomo registrato all’anagrafe, ben conosciuto.

Noi possiamo non credere in Gesù Cristo, possiamo dirci atei, agnostici: non importa. Quello che importa è che siamo figli di una civiltà che ha imparato — non con le teorie, ma con l’esperienza — a pensare come infinitamente ragionevole, e bello, che lo squilibrio generi l’armonia, che un uomo flagellato e trattato come un criminale sia detto Santo, Signore, Altissimo.

Questo pensiero che unifica, non esclude, non condanna, questo pensiero tutto pieno di perdono (che non è un laissez-faire), di giudizio e di perdono, di limpidezza e di accoglienza, di precisione e di larghezza d’animo, di rigore e di infinita comprensione, ci si è comunicato il 23 di giugno scorso attraverso la semplicità di un uomo attento e capace di parlare con tutti, un uomo che non prova scandalo, che ha parlato a noi artisti allo stesso modo in cui parla ai migranti sbarcati a Lampedusa, ai malati gravi, agli ultimi della Terra, perché questo è un artista: un misero, un povero, ma anche una specie di sentinella piccola e fragile, che ha ricevuto il dono di saper vedere forse meglio di altri non solo quello che sarà ma quello che realmente siamo.

Il Papa ha usato la parola «veggente», che non vuol dire «indovino». Il veggente vede anzitutto quello che c’è, l’artista non ci introduce all’invisibile, ma ci aiuta a vedere il visibile (quello che non vogliamo vedere), e il visibile è fatto anche di miracoli. L’artista non fa miracoli, ma ci avvisa che il mondo è fatto anche di miracoli. Se poi, come ha detto l’immenso Cormac McCarthy, noi non li vogliamo vedere, questo è sempre possibile: la libertà non ci sarà mai tolta (a meno che non ce la togliamo da soli).

di Luca Doninelli