· Città del Vaticano ·

Testimonianza di una suora del Pime

La gioia della missione

 La gioia della missione  QUO-169
24 luglio 2023

Sono un membro della congregazione delle suore Missionarie dell’Immacolata (MdI): mi sono unita a loro perché mi sono sentita attratta dalla dimensione missionaria del carisma del Pontificio istituto missioni estere (Pime), che mi sembra significativo in ogni tempo e luogo. Dal luglio 1982 il percorso missionario mi ha condotto dalla mia città d’origine nello stato di Maharashtra, in India, prima in Andhra Pradesh e quindi in diversi stati del paese fino al luogo dove mi trovo ora: sono una suora missionaria nell’Africa del Nord. Ma anche la mia consapevolezza di essere missionaria ha dovuto fare un percorso, uno spostamento di paradigma dal fare all’essere, dall’abito religioso a quello civile, da grandi ministeri organizzati a individui o piccoli gruppi; da grandi parrocchie a una con una sola comunità religiosa. Questi cambiamenti mi hanno fatto riflettere sul vero significato e sulla rilevanza della mia vocazione e della mia missione.

Le suore sono presenti nell’Africa del Nord dal 2009; nel tempo la nostra presenza si è diffusa e ora contiamo quattro comunità. Ad agosto 2014 abbiamo aperto un centro polifunzionale nella nostra diocesi. Quattro di noi collaborano in diverse attività con gli animatori locali: lavori di taglio e cucito, ricamo, lavoro a maglia, cucina, aerobica e yoga, sostanzialmente per le donne. Una consorella è impegnata nei corsi di ricamo ai quali partecipano anche alcune ragazzine con difficoltà nell’apprendimento. Offriamo attività extracurricolari per i bambini nei periodi delle vacanze scolastiche. Un’altra consorella si occupa dei bambini autistici.

Il 21 settembre 2020, nell’anniversario della morte di madre Igilda, una delle nostre fondatrici, ho iniziato, insieme a un volontario, a visitare una prigione nella quale sono detenute oltre duemila persone. Abbiamo incontrato sedici detenuti di altre nazioni africane che non hanno avuto la possibilità di rimanere in contatto con le famiglie lontane. Nel febbraio 2021 sono arrivati da altri centri di detenzione due prigionieri che da due anni non avevano più avuto contatti con le famiglie. Con i numeri telefonici che mi hanno dato, ho contattato i loro familiari: «Ma sono ancora vivi?», è stata la loro prima reazione. Mi scendevano le lacrime. Questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia importante e necessario poter fare da interfaccia tra i prigionieri e le loro famiglie. Non so descrivere la gioia sui volti dei detenuti quando andiamo a trovarli, quando portiamo loro notizie delle loro famiglie, a volte addirittura una lettera o qualche foto dei loro cari.

Voglio raccontare un’esperienza particolare che ho avuto nel corso di una di queste visite. Nel parlatorio erano riuniti sedici detenuti. Dopo lo scambio di notizie e informazioni sul mondo esterno, iniziano a condividere le loro difficoltà: la mancanza di rispetto per l’essere umano, problemi con il cibo e così via. Come sempre, dopo averli ascoltati, leggiamo con devozione il Vangelo e condividiamo alcune riflessioni. Ciò che mi ha toccato particolarmente sono state le loro preghiere spontanee di fiducia e affidamento al Signore e i canti di ringraziamento. Recentemente, due di essi hanno chiesto il sacramento della confessione. Ognuna di queste visite mi insegna a essere riconoscente al Signore per la libertà di cui godo e che spesso do per scontata. Nel giudizio finale, secondo Matteo, 25, Gesù dice: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi». Credo che il ministero penitenziario sia caro al cuore di Gesù che si identifica con i bisognosi e i più emarginati.

Nel nostro centro polifunzionale abbiamo un ambiente dove accogliere le persone anziane e malate per piccoli interventi sanitari, del quale usufruiscono soprattutto le donne che preferiscono venire da noi. Io sono infermiera diplomata e questo mi ha insegnato a coltivare rapporti amichevoli con il vicinato, che facilita l’accesso alle famiglie. Ho potuto così assistere molte persone nella malattia e nella condizione di vecchiaia. Alcune di loro sono morte ma sono rimasti i rapporti con le loro famiglie. Nel mese sacro del Ramadan alcuni ci invitano all’iftar (quando al tramonto rompono il digiuno), che generalmente ha luogo con i membri della famiglia. Non dimenticherò mai il primo giorno del Ramadan del 2018 che ho vissuto con una vedova che viveva sola con la figlia. Era emozionatissima quando mi ha detto: «Sorella, che esperienza rompere il mio digiuno con una suora cattolica indiana!». Alcuni di loro sono felici di invitarci alle celebrazioni come il matrimonio, la nascita di un bimbo, compleanni e via dicendo. Noi, per contro, prendiamo l’iniziativa di andare a visitarli in momenti di sofferenza come la malattia o la perdita di una persona cara. La nostra missione è una sfida in un luogo dove si fa fatica a comprendere il celibato. Per questo le parole che Papa Francesco ha rivolto a sacerdoti, religiosi e consacrati durante il suo viaggio apostolico a Rabat, in Marocco, nel marzo 2019, sono state importanti e incoraggianti. Egli infatti sottolineò questo concetto: «Infatti, Gesù non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno nel quale come cristiani ci possiamo tutti ritrovare per rendere presente il suo Regno».

Oggi la nostra vocazione significa contribuire all’edificazione di comunità fraterne, in qualsiasi luogo ci troviamo e qualsiasi cosa facciamo. Dal momento stesso in cui sono arrivata qui, riconosco la necessità e l’importanza della vocazione come dialogo di vita, e di una convivenza interculturale, interreligiosa, intergenerazionale e internazionale, in pace e in armonia. Come Papa Francesco cita nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, non possiamo dimenticare che «la vita non ha una missione, la vita è una missione».


#sistersproject