L’insostenibile leggerezza
Milan Kundera detestava cordialmente l’acribia “biograficista”, ovvero il feticismo biografico di critici, giornalisti, colleghi ed epigoni sugli scrittori più famosi, la mania di passare al setaccio la vita privata di chi ha regalato all’umanità pagine di grande bellezza e profondità per cercarvi il nesso con quel mistero insondabile che chiamiamo ispirazione. Kundera è morto l’11 luglio, a 94 anni — la notizia della morte è stata data dalla televisione pubblica ceca e confermata da un portavoce di Gallimard, il suo editore francese — e forse l’omaggio che avrebbe gradito di più, nei tanti obituaries che lo ricordano in queste ore, è proprio rispettare il più possibile il suo riserbo, parlando non tanto della sua biografia, quanto delle sue opere.
In virtù della sua arte, come scrive spesso nei suoi saggi, il romanziere è per lo più ambiguo e ironico, ed è giusto che rimanga ben nascosto dietro ai suoi personaggi. Come conferma un dialogo tratto da Testamenti traditi: «Signor Kundera, lei è comunista? – No, io sono un romanziere. – È un dissidente? – No, io sono un romanziere. – È di destra o di sinistra? – Né l’uno, né l’altro. Io sono un romanziere». Si può (per Kundera si deve) descrivendo il mondo solo attraverso la voce e il volto degli attori che lo scrittore mette in scena sulla pagina. Senza rinunciare a porsi domande alte, impegnative, complesse, come che cos’è la civiltà? Che cos’è l’arte? Che cosa significa vivere secondo un ideale? Che cosa implica, concretamente, amare qualcuno?
Le risposte a queste domande non possono che essere narrative, intessute nelle pagine dei suoi romanzi più famosi — dal celeberrimo L’insostenibile leggerezza dell’essere, scritto in ceco ma pubblicato per la prima volta in Francia nel 1984, a L’immortalità uscito per la prima volta in Francia nel 1990, in cui Goethe e Hemingway chiacchierano amabilmente tra loro, rendendo evidente la loro natura di personaggi. E il loro imbarazzo per una longevità letteraria più molesta che gradita. Senza dimenticare Lo scherzo, che con la sua trama paradossale smaschera l’ottusa violenza dei sistemi totalitari. Una forza polemica che dà vivacità, colore e ritmo serrato anche ai saggi. Li ricordiamo a partire dall’ultimo libro (di cui l’Osservatore scrisse) uscito in Italia, edito da Adelphi nel 2022, Un occidente prigioniero. O la tragedia dell’Europa centrale (traduzione di Giorgio Pinotti); per farlo, stavolta è necessario dire qualcosa della sua biografia.
Nato a Brno nel 1929, Kundera viveva in Francia dal 1975, dove si era trasferito dopo aver apertamente criticato l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968; nel 1979 gli era stata tolta la cittadinanza del suo Paese. Come nei romanzi, anche nei saggi ama smascherare le ingiustificate certezze dell’Occidente, e si propone di scrutare la realtà incarnata nei particolari, cercando di trovare una chiave per decifrare gli enigmi del mondo senza cadere in automatismi e cortocircuiti facili della ragione e del sentimento, per lasciarci educare, tramite la parola letteraria, alla perspicacia affettiva di un’intelligenza in azione.
Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell’Urss, si tiene in Cecoslovacchia il quarto Congresso dell’Unione degli scrittori. Un congresso diverso da tutti i precedenti, memorabile. «Ad aprire i lavori, con un discorso di un’audacia limpida e pacata», si legge nella presentazione del libro, «è Milan Kundera, allora già autore di successo. Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle piccole nazioni, appare evidente —– dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei “vandali”, gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema avesse accelerato il disfacimento della struttura politica».
In un intervento del 1983, invece, Kundera accusa l’Occidente di avere assistito inerte alla sparizione del suo estremo lembo e importante crogiolo culturale: Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tutti gli effetti. E di aver dimenticato le loro rivolte, sorrette dal nesso vitale tra arte e politica, letteratura e popolo.
di Silvia Guidi