· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Lo scandalo della povertà è una sfida culturale che richiede un cambio di mentalità

Non sentirsi mai
abbastanza buoni

 Non sentirsi mai abbastanza buoni   QUO-149
30 giugno 2023

Le previsioni demografiche, per quanto possano contemplare un certo margine d’errore, fanno pensare. Ad esempio, nei prossimi anni l’aumento della popolazione giovanile in Africa sarà esponenziale.

Nel 2100 aumenterà del 181 per cento rispetto al numero censito nel 2019 e alla fine del secolo i giovani africani rappresenteranno il doppio della popolazione totale dell’Europa. L’Europa infatti registrerà un calo del 21,4 per cento e l’Asia del 27,7 per cento. Lo riferisce Nathalie Delapalm, direttore esecutivo della Mo Ibrahim Foundation, una fondazione africana, con sede a Londra e Dakar, fortemente voluta dall’uomo d’affari e filantropo sudanese-britannico, Mo Ibrahim.

Sappiamo bene che le migrazioni sono il tema che domina animatamente il dibattito e l’agenda politica europea. Partiti e movimenti definiscono le proprie identità a partire dal loro posizionamento rispetto a questa sfida e su di essa possono accrescere o perdere il proprio consenso elettorale.

Al contempo, molto poco si sa e si dice di quello che le migrazioni rappresentano come fenomeno globale. Non è un caso se l’economista John Kenneth Galbraith affermò: «Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà, selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi, sono utili per il Paese che li riceve, aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel Paese di origine: quale perversione dell’animo umano ci impedisce di riconoscere un beneficio tanto ovvio?». In effetti, uno studio dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni afferma che «non esiste un collegamento diretto tra povertà, sviluppo economico, crescita della popolazione e cambiamento politico da un lato, e migrazioni internazionali dall’altro.

La riduzione della povertà non è di per sé una strategia efficace per la diminuzione delle migrazioni». Ne consegue che la lotta alla povertà è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per contrastare le migrazioni e che anche la giustizia sociale complessiva, ovvero il tasso di disuguaglianza fra le persone, sia all’interno della stessa società che fra Paesi diversi, rappresenta un fattore cruciale per dare conto delle migrazioni. La logica più preoccupante sottesa al luogo comune che vede un nesso di causalità diretta tra povertà e migrazioni è che lasciare il proprio Paese di origine venga sempre considerato una sventura o comunque come qualcosa di negativo.

La mobilità umana invece può dare un contributo estremamente positivo allo sviluppo sostenibile dei Paesi di origine, di transito e di destinazione, come conferma l’Agenda delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile 2030 la quale recita testualmente: «Riconosciamo il positivo contributo delle migrazioni alla crescita inclusiva e allo sviluppo sostenibile del pianeta». La morale di tutto questo ragionamento è allora chiara: il fenomeno migratorio è sempre più rivelatore di quell’istanza di partecipazione equa al bene comune da parte di coloro che sono in periferia. Ignorare la loro voce significa davvero andare contro Dio e contro l’uomo. Come ha detto Papa Francesco a squarciagola: «Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso all’ incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, 9 luglio 2015). Viene spontaneo domandarsi allora come porsi con il cuore e con la mente, di fronte a questo scenario.

Una risposta perspicace è quella del grande Zygmunt Bauman, secondo cui la responsabilità morale è sovrana. Lo chiarisce con queste testuali parole: «Gli argomenti razionali non servono; siamo franchi, non c’è nessuna “buona ragione” per cui dovremmo essere i custodi di nostro fratello, avere cura di lui, essere morali, e in una società orientata all’utile i poveri e gli inattivi, privi di scopo e di funzione, non possono contare su prove razionali del loro diritto alla felicità. Sì, ammettiamolo, non c’è alcunché di “ragionevole” nell’assumersi la responsabilità, nel prendersi cura degli altri e nell’essere morali. La morale non ha altro che se stessa per sorreggersi: è meglio avere a cuore qualcosa che lavarsene le mani, anche se questo non arricchisce le persone e non incrementa la redditività delle aziende. È la secolare decisione di assumerci la responsabilità della nostra responsabilità, la decisione di misurare la qualità di una società sulla qualità dei suoi standard etici, che celebriamo oggi» (The individualized society, Polity Press, Cambridge 2001). Ma l’età contemporanea, quella che ci appartiene, è caratterizzata da uno stato di adiaforizzazione, secondo la definizione di Bauman: la perdita del senso morale, la rinuncia alla valutazione del mondo, un «senso di apatia che sembra caratterizzare l’Io globale […] avendo ormai anestetizzato la propria capacità di disporre di un metro per valutare quanto accade attorno a sé» (definizione tratta dall’introduzione di Mauro Magatti a Z. Bauman, Una nuova condizione umana, Vita e Pensiero, Milano 2003).

Ciò non toglie che mai come oggi occorre non gettare la spugna. Per vivere le sfide della missione con uno spirito all’insegna della povertà evangelica, nella logica della condivisione, è necessario rinforzare, per così dire, le difese e mantenere vigile la propria coscienza morale, prendendo atto che la scelta è sempre possibile: «Essere morali — per dirla ancora con Bauman — significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali siano buone e quali cattive. [...] Essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni: sono portato a credere che tale sensazione si celi dietro l’esigenza endemica di trascendenza e spieghi la notoria irrequietezza umana riguardo a ciò che è umano. Genera però anche molta infelicità e un dubbio costante che avvelena persino l’autocompiacimento più profondo.

È a questo punto che l’etica (codificata) torna utile, come tranquillante, come medicina che mette a tacere gli scrupoli, come farmaco che allevia i rimorsi di coscienza. Come tutti i medicinali, è però tutt’altro che infallibile. A lungo andare, se assunta tutti i giorni, può scatenare una malattia “iatrogena”, distruggere il sistema immunitario dell’organismo e privare l’io della sua già scarsa capacità di affrontare i dilemmi morali e cercare il bene per conto proprio. […] L’alternativa a un codice etico rigido, preciso e soprattutto vincolante (magari addirittura autoritario) è una vita di tentennamento. L’irrequieta e indefessa ricerca dei modi per sbarazzarsi del male non può procedere in linea retta, giacché i passi giudicati buoni portano, in genere, nuovi mali e, a un esame più attento, non sembrano buoni come si sperava. […] Per gli esseri inseriti in una situazione morale, la coerenza supportata dalla regola non è necessariamente una virtù» (Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002).

Se condividiamo allora l’idea che essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni, è ovvio che dobbiamo accogliere con sospetto l’adozione di uno standard etico, fatto di buone pratiche che inibiscano le nostre coscienze. Lungi da ogni retorica, equivale alla scoperta dell’uovo di Colombo affermare che la povertà non possa essere tecnicamente riconducibile al solo reddito. Infatti, nel contesto sociale che si è venuto a determinare con la globalizzazione, vi sono molte variabili, riconducibili, ad esempio, alla non sufficiente erogazione di beni e servizi condivisi nell’ambito della collettività. Per non parlare del deficit valoriale che ha sempre e comunque un impatto sul modus vivendi della gente.

Si genera comunque un disagio rispetto al quale occorre vigilare per i migranti, ma non solo loro. Essere povero, infatti, a parte le limitazioni salariali può significare, in termini generali, avere poco di ciò che possa influenzare il benessere di una persona.

Una cosa è certa: lo scandalo della povertà esige da ognuno di noi, molto, ma molto di più. La sfida, prim’ancora che essere sociale, politica, economica, è culturale. Si tratta di sperimentare un cambio di mentalità, mediante lo spirito cristiano, per dare senso e significato a relazioni umane davvero rinnovate.

di Giulio Albanese