
Avevo nove o dieci anni! Un fatto — ancora oggi lo ricordo, dopo tanti anni — che ha lasciato il segno. Vivevo in un castello, Torre in Pietra, nel comune di Roma, a pochi chilometri dalla città. Vita semplice, quella di noi bambini. Eravamo sei, sette ragazzini. Conoscevamo ogni angolo del castello, gli anfratti più reconditi: la bottega del calzolaio, la falegnameria con le sue rumorosissime macchine, il luogo dove lavorava il “facocchio”, le cantine, i cavalli (anche quello che usava il “fattore”), la bottega del sellaio, le officine e i vecchi trattori, il forno (pane fresco ogni giorno cotto a legna), la “dispensa”, una sorta di bazar dove trovavi di tutto, il frantoio dove girava la mola e colava un olio squisito sul pane “bruscato”, e, naturalmente, la scuola dove “imperava” la giovane maestra (la nostra maestra Ada, che aveva vinto il concorso e proveniva nientemeno che da Bagnacavallo in Romagna…). E poi il medico, i carabinieri, il parroco, il conte erano i personaggi che impreziosivano il borgo, un luogo lontano dal grande traffico, isolato e immerso in un tempo che sembrava statico e secolare.
Ma noi bambini conoscevamo anche i luoghi esterni al castello. Nelle nostre scorribande esplorative avevamo imparato a conoscere e riconoscere il canto degli uccelli, il percorso e le tane degli animali selvatici, le piante, soprattutto quelle da frutto (chi conosce ed ha assaggiato le squisite nespole selvatiche?), in primavera gli asparagi, ad ottobre le vigne con i filari d’uva sulla collina (e noi alla ricerca dei grappoli più belli… allora non si aveva un solo vitigno, ma il moscato precedeva il pizzutello, quello bianco vicino al nero luccicante al sole… e i nostri morsi intaccavano il grappolo lasciandolo ancora vivere sul tralcio della vite). Il ruscello, per la “pesca” di pesciolini bianchi, e il canneto, dove si nascondevano le galline anarchiche che “fedavano” in un luogo tutto loro e segreto, avevano il loro fascino e ci permettevano di sentirci, a seconda del caso, grandi pescatori o esploratori leggendari.
Non solo! Le scorribande implicavano anche di essere “armati”. E l’arma a buon mercato era la fionda. Accuratissima la ricerca della “forcella” nella “macchia” (la “macchia sacra” — intoccabile — era quella di proprietà della parrocchia) alla quale venivano legati strettissimi gli elastici ricavati dal taglio minuzioso di vecchie camere d’aria, il cuoio leggero e flessibile che doveva contenere la “breccola” presa nelle anse del torrente e levigata dall’acqua.
Un giorno, vicino all’ingresso del castello, quasi sul ponte che una volta era stato il “ponte levatoio”, la squadra di cacciatori, silenziosi, arriva sotto un alto albero di acacia. Sulla cima un uccellino cantava beato facendo echeggiare al vento la sua gioia di vivere. Io, capo squadra, afferro la fionda, metto la bianca breccola nel cuoio, prendo la mira chiudendo un occhio e centrando il bersaglio con l’altro, tiro gli elastici e faccio partire il colpo. Un attimo… il canto si interrompe e l’uccellino cade morto ai miei piedi. Una fitta di dolore mi ha trapassato il cuore. Lo ricordo ancora con tanta pena. Da quel momento la fionda è sparita, non ho mai più pensato alla caccia.
Tu che hai letto fin qui il racconto cosa hai pensato? Quali domande? E perché io ho ricordato questo episodio? Per dirti, carissimo, che se non facciamo esperienza vera della vita (nella gioia e nel dolore) corriamo il rischio di viverla nel sogno. Anche da quanto quest’anno «L’Osservatore di Strada» ci ha detto, siamo certi che alcuni occhi sono diventati più sensibili, i cuori più attenti ad andare oltre il tangibile, il pensiero diverso. Grazie «Osservatore di Strada»! Grazie.
del cardinale Enrico Feroci