L’Intervista
Quando salgono sull’altare a fianco del sacerdote, quando invocano antenati e antenate a inizio della liturgia, quando ballano e cantano e alla fine della messa pregano Maria, le donne congolesi esprimono nella preghiera la loro vita. Facendo memoria di una storia di fede che inizia prima dell’avvento dei missionari cristiani. E che oggi si esprime attraverso «una celebrazione gioiosa, un vero luogo di incontro con Gesù». Con queste parole, nell’introduzione al volume Papa Francesco e il Messale romano per le diocesi dello Zaire’, lo stesso Papa definisce il rito zairese, primo esempio di inculturazione della liturgia, «un rito promettente per altre culture», recita il sottotitolo.
«Questa esigenza è venuta dal di dentro del popolo congolese, che ha sentito il bisogno di pregare Dio secondo l’indole propria della sua cultura. Quando i congolesi sono stati evangelizzati, pregavano e cantavano in latino, in francese, ma non si sentivano a loro agio e quindi non pregavano bene, perché non riuscivano neanche a capire quello che dicevano»: suor Rita Mboshu Kongo è la curatrice del volume edito dalla Lev. Ha 57 anni, è originaria della Repubblica Democratica Congo, fa parte della Congregazione Figlie di Maria Santissima Corredentrice, è docente di teologia spirituale e formazione alla vita consacrata alla Pontificia università Urbaniana. Il rito congolese, spiega, «scaturisce da un lungo cammino di dialogo tra la Conferenza episcopale nazionale del Congo e la Santa Sede, ed è stato il frutto meraviglioso di un impegno costante. Con questo spirito di dialogo si è arrivati alla conclusione che il Messale Romano per le Diocesi dello Zaire è opera di una Chiesa locale intera in comunione con la Chiesa universale».
La stessa biografia di suor Rita aiuta a capire come la celebrazione eucaristica diventi sintesi e memoria di un’intera vita. Pregare per riscoprire i diritti delle donne e delle religiose africane e lavorare perché le ragazze acquisiscano consapevolezza della propria forza, fa tutt’uno con il ruolo di leader spirituale che il suo clan, il kete, di tradizione matrilineare, le riconosce; con le preghiere alla nonna che recita quotidianamente; con una vita spirituale che ha le sue radici nelle religioni tradizionali in Africa e la sua forza teologica negli studi fatti all’Istituto San Tommaso di Messina e al Teresianum a Roma, dove ha conseguito la laurea in teologia spirituale.
È difficile trovare uno spazio nelle giornate di suor Rita, che è anche presidente della Fondation Pape François pour l’Afrique, a Kinshasa, nata con lo scopo di rispondere all’appello di Francesco per una formazione permanente e integrale, centrata sull’ecologia, attenta a famiglia, giovani, orfani, poveri, alle vittime di numerose forme di violenze, e in particolare alle donne.
La liturgia resta comunque centrale negli studi di suor Rita. Ripartiamo dalla messa zairese. «Era un bisogno nato dai congolesi, tanto è vero che il nostro cardinale Malula, aveva cominciato a tradurre i canti nella lingua congolese, in lingala. Partecipava al Concilio Vaticano ii dove ha posto il problema della liturgia ed è stato ascoltato».
Il cardinale Malula nel ’58 disse che gli africani conoscevano il Dio cristiano prima ancora che arrivassero i missionari. Che vuol dire?
«Perché pregavano un solo Dio, non gli dei, o la luna o gli alberi. Attraverso la grandezza della natura vedevano la potenza di Dio. Se un albero ha tanti rami, che ci dà ristoro e riposo, quanto grande può essere Dio che lo ha creato? Nelle nostre preghiere tradizionali Dio è chiamato Padre creatore. E questo prima dell’evangelizzazione. Non parlavano di Gesù, dello Spirito Santo, ma di un essere più grande che ha dato vita a tutto ciò che esiste».
Nella spiritualità africana che ruolo ha la donna?
«Nella società tradizionale africana, la donna era considerata guardiana della tradizione, educatrice, madre e soprattutto svolgeva un ruolo religioso effettivo riconosciuto dagli uomini. La donna è colei che preserva, fa la guardia. Il mio clan, il Kete, della zona di Mueka, è per esempio matriarcale, il potere del comando spirituale e culturale lo ha la donna, che lo esercita dando consiglio a fratelli e cugini. Gli uomini sono i “porta parola”, parlano in pubblico, ma riportano le idee della donna».
Lei come suora questo potere matriarcale come le esercita?
«Come religiosa, sono un punto di riferimento per tante persone, non soltanto della mia famiglia, anche perché non mi sono consacrata per la famiglia bensì per servire il popolo di Dio».
Nel rito zairese come è la partecipazione femminile?
«Le donne servono la messa all’altare, cantano nella processione. Ragazzi e ragazze servono con il prete. Le parrocchie vanno avanti, come in tutto il mondo, con la partecipazione attiva delle donne. È una liturgia che prende in considerazione l’uomo nella sua totalità».
La religione degli antenati come entra in quella cristiana, le antenate hanno un ruolo particolare?
«Nella celebrazione della messa in rito congolese la struttura è questa: all’inizio della celebrazione c’è l’invocazione degli antenati “retti di cuore”, assieme ai santi per stabilire anche la comunione tra Chiesa terrena e comunità celeste. Invochiamo l’intervento degli antenati, perché crediamo che i morti vivono con noi, partecipano alla nostra vita, ci accompagnano. Sono persone che mi hanno voluto bene quando erano su questa terra e quindi anche al di là, essi continuano a volermi bene. È una comunione dei santi»
Lei ha più volte denunciato, la condizione di violenza a cui le africane sono soggette, anche nella Chiesa.
«Non è una denuncia per cercare di accendere fuoco. Quando c’è un disaggio, si parla per trovare una soluzione. Inoltre la Chiesa è Madre di tutti. Un bambino non può andare a denunciare sua madre, ma le chiede aiuto».
Ha funzionato?
«Certo, la Chiesa come madre ha risposto in tanti modi. Adesso, per esempio, ci sono tante suore che fanno il dottorato, ci sono tante borse di studio».
Lei insegna all’Urbaniana. Ha fatto un cammino importante come donna, come religiosa, e come religiosa africana. Cosa si sente di dire alle sue sorelle?
«Ho sempre detto e ripeto loro di non contare sugli altri, ma su sé stesse. Ogni donna, ha studiato o meno, deve definirsi a partire di se stessa, non da un’altra persona. Devi essere capace di giustificare le tue idee, i tuoi no e i tuoi sì. Con i maschi dobbiamo collaborare, confrontarci, e anche con le altre donne. Questo è il cammino che cerco di incoraggiare. Bisogna mettere i piedi sulla terra, imparare quello che non si sa e non delegare agli altri».
di Vittoria Prisciandaro
Giornalista Periodici San Paolo «Credere» e «Jesus»
#sistersproject