· Città del Vaticano ·

Un mito letterario moderno
Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde

Come zizzania
attorcigliata sul grano

 Come zizzania  attorcigliata sul grano  QUO-147
27 giugno 2023

«Nel romanzo del 1886 il dottor Jekyll è moralmente doppio, come lo sono tutti gli uomini, mentre la sua ipostasi, Edward Hyde, è malvagia, sfrenata e senza respiro», così scrive nel dicembre del 1941 Jorge Luis Borges recensendo, con la solita acutezza di penna e di humour, il film di Victor Fleming con cui «Hollywood, per la terza volta, ha screditato Robert Louis Stevenson». Forse anche grazie a questi malriusciti film tratti dal romanzo di Stevenson è oggi un dato di fatto che il tema del doppio porta, ormai automaticamente, a pensare al romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde del grande narratore scozzese. Un testo diventato subito un vero e proprio mito letterario moderno. Diversi i motivi del suo successo: la perfezione dello stile, il plot avvincente, un intreccio in cui si miscelano elementi gialli-polizieschi (sin dal titolo) a quello più noir e da racconto del mistero e del terrore, ma poi, appunto, il tema del “doppio” che con il capolavoro di Stevenson trova forse la sua migliore realizzazione e senz’altro la sua più celebre consacrazione.

Al centro della vicenda che vede protagonista il giovane e brillante dottor Henry Jekyll c’è il tema dell’ambiguità dell’essere umano, della sua duplicità: vi è un naturale sdoppiamento, ci dice Stevenson, che caratterizza ed è presente in ogni essere umano e che, nel romanzo, si configura come una rottura dell’integrità della persona, come la scissione del Bene dal Male e, in definitiva, come lo sdoppiamento della stessa coscienza umana. Jekyll infatti, lo scienziato ottimista che, animato dalle migliori intenzioni, cerca di dividere e separare le due spinte opposte che muovono e lacerano l’animo umano, così si confessa: «Pensavo che se ognuno di questi (i due esseri che si dilaniano nella sua coscienza) avesse potuto essere confinato in un’entità separata, allora la vita stessa avrebbe potuto sgravarsi di tutto ciò che è insopportabile: l’ingiusto avrebbe potuto seguire la propria strada di nequizie, svincolato dalle aspirazioni e dalle pastoie del virtuoso gemello; al giusto sarebbe stato dato altresì di procedere spedito e sicuro nel suo nobile intento, compiendo quelle buone azioni che lo avessero gratificato, senza essere più esposto alla gogna e al vituperio di un sordido compagno a lui estraneo. Era una maledizione del genere umano che questo eteroclito guazzabuglio dovesse così tenacemente tenersi avviluppato... che fin nel grembo tormentoso della coscienza questi gemelli antitetici dovessero essere in perenne tenzone. Come fare, allora, a separarli?».

L’intento prometeico di Jekyll è lo stesso dei servi zelanti della parabola della zizzania del Vangelo secondo Matteo che di fronte allo scandalo del male rappresentato dall’erba cattiva, chiedono al Signore: «Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?» (Matteo 13, 28). Mosso dal medesimo sdegno, Jekyll si illude di cancellare e controllare il male per via scientifica; purtroppo non ricorda la risposta della parabola: «No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». E così il “grano”, la vita stessa di Jekyll finisce per essere sradicata, distrutta.

Con lo stesso gusto per il paradosso un secolo dopo, un altro scrittore inglese, il cattolico Anthony Burgess, immaginava una vicenda simile nel suo romanzo più famoso, Un’arancia ad orologeria, anch’esso, come il testo di Stevenson, diventato subito oggetto della trasposizione cinematografica (sotto le più sapienti mani di Kubrick). Si tratta infatti di testi dal profondo significato morale che non finiscono di affascinare, turbare, interpellare i milioni di lettori che gli si avvicinano. Stevenson in tutti i suoi romanzi e racconti ritorna sui temi del Male e delle scelte morali. Sapeva benissimo che il mondo è il campo in cui male e bene sono mischiati, attorcigliati l’uno sull’altro come la zizzania si intreccia sulla spiga del grano buono e che ogni approccio manicheo e ogni soluzione moralistica sono destinati a fallire.

Il moralismo non è mai morale, lo esprime bene questa sua affermazione tratta dal Sermone di Natale che Stevenson scrisse negli ultimi anni di vita, passati nelle isole Samoa, lontane, nelle intenzioni dello scrittore, non solo geograficamente, dalla cupa, fredda e oscura terra britannica: «C’è un’idea che circola tra i moralisti, e cioè che si debba rendere buono il prossimo. Debbo rendere buona una sola persona: me stesso. Mentre il mio dovere verso il prossimo si esprime più efficacemente dicendo che debbo, per quanto posso, renderlo felice».

di Andrea Monda