· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
In Africa tra il 2005 e il 2022 gli utenti digitali sono aumentati del 38 per cento

La sfida della sicurezza informatica

 La sfida  della sicurezza informatica    QUO-144
23 giugno 2023

Oggi, circa 5,3 miliardi di persone, ovvero il 66 per cento della popolazione mondiale, utilizzano Internet. Lo riferisce l’International Telecommunication Union (Itu), agenzia delle Nazioni Unite specializzata sui temi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, precisando che la percentuale di africani che è entrata in rete è passata dal 2,1 per cento del 2005 al 24,4 per cento del 2018. L’ultimo rilevamento ufficiale del 2022 parla del 40 per cento.

Da questo punto di vista possiamo dire che il continente africano è certamente quello che ha registrato i più alti tassi di nuovi utenti internettiani su base annua, anche se poi continua ad essere il fanalino di coda rispetto agli altri continenti in termini percentuali. Nei Paesi europei, quelli della Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e delle Americhe, la media della popolazione che utilizza Internet varia tra l’80 e il 90 per cento, avvicinandosi significativamente all’uso universale. Secondo gli standard delle Nazioni Unite, il tasso di penetrazione è considerato soddisfacente a livello planetario quando si attesta attorno al 95 per cento del totale. Circa due terzi della popolazione negli Stati Arabi e nei Paesi dell’Asia-Pacifico è rispettivamente al 70 e al 64 per cento, in linea comunque con la media globale. Questo in sostanza significa che 2,7 miliardi di persone sono offline a livello mondiale e l’Africa è, alla prova dei fatti, la macroregione meno connessa, con il 60 per cento della popolazione sprovvista di un accesso alla rete.

D’altronde, la connettività universale di cui sopra rimane ancora oggi una prospettiva lontana sia nei Paesi meno sviluppati (Ldc) come anche in quelli in via di sviluppo senza sbocco sul mare (Lldc), dove solo il 36 per cento della popolazione è attualmente online. È dunque evidente che, nonostante l’Africa sia cresciuta nel corso degli ultimi decenni, soprattutto grazie alla diffusione degli smartphone, continua a essere ostaggio del cosiddetto digital divide. Mentre l’accesso a Internet è diventato progressivamente più economico nei Paesi del Primo mondo, questo è ancora proibitivo in molte economie a reddito medio-basso. La conferma viene dal costo degli abbonamenti a banda larga e dei dispositivi digitali che rimane esoso per i ceti meno abbienti. Secondo i parametri dell’Onu, la connessione è considerata equa quando il costo di un Gigabyte (GB) è inferiore al 2 per cento del reddito mensile lordo, mentre in Africa il prezzo di un abbonamento Internet mobile di base che include 2 GB di dati costa in media il 6,5 per cento del reddito mensile del consumatore tipo. Nel frattempo il costo sta lievitando ulteriormente a seguito dell’impennata inflazionistica che penalizza l’economia continentale.

Detto questo, rispetto al passato, l’Africa si sta comunque digitalizzando e la rete rappresenta una nuova frontiera per i mercati, ma soprattutto per le giovani generazioni. Si pongono dunque alcune questioni che già da diversi anni sono oggetto di attenzione da parte delle autorità governative africane. Ad esempio, la circolazione incontrollata di dati personali, la vulnerabilità rispetto al crimine digitale e quella relativa alla diffusione virale di fake news. Contrastare questi fenomeni è complesso per via della mancanza di competenze e di risorse economiche da destinare alla sensibilizzazione e all’adeguamento tecnologico, ma soprattutto per via delle enormi lacune dei sistemi legislativi africani sul tema del digitale.

Ecco che allora il governo dell’areopago internettiano africano diventa un imperativo sia per i singoli utenti, come anche per le istituzioni che intendono salvaguardare i loro dati, risparmi e interessi. Finora l’assenza in molti Paesi di adeguate normative in materia ha rappresentato una sfida di fronte allo strapotere dei pochi giganti dell’economia digitale, il cui potere monopolistico cresce di giorno in giorno con l’obiettivo ormai evidente di ottenere i migliori algoritmi predittivi, e guadagni stellari. Al di là del cyber crime, la protezione dei dati personali rispetto a un loro uso «inappropriato» da parte dei gestori della rete e dei portali è fondamentale. Infatti, con i dati personali si possono orientare i comportamenti di acquisto, le scelte sociali e politiche.

L’Unione africana, in considerazione di questo vuoto normativo si è mossa per fornire a tutti i Paesi una cornice normativa continentale da sfruttare per implementare le proprie leggi. Nel 2011 è stata quindi redatta l’African Union Convention on Cyber Security and Personal Data Protection, discussa e approvata nel 2014. La Convenzione, detta di Malabo, è finalmente entrata in vigore l’8 giugno scorso con la ratifica da parte della Mauritania il 9 maggio scorso

Adottata da 55 capi di Stato africani, oltre a migliorare le salvaguardie legali della sicurezza informatica e della protezione dei dati all’interno della Ua, mira anche alla complementarità con la Convenzione di Budapest del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica e, potenzialmente, il regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione europea (Ue). La Convenzione è infatti entrata ufficialmente in vigore trenta giorni dopo la data di ricezione da parte del presidente della Commissione dell’Ua. Com’è noto, le convenzioni internazionali, una volta sottoscritte, per divenire operative devono essere ratificate da almeno un certo numero di Paesi aderenti, stabilito nelle convenzioni stesse. Nel caso della Convenzione di Malabo la quota da raggiungere era di 15 Paesi. Al momento quelli che hanno ratificato la Convenzione sono i seguenti: Angola, Capo Verde, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo, Ghana, Guinea Equatoriale, Mozambico, Mauritania, Mauritius, Namibia, Niger, Rwanda, Senegal, Togo e Zambia. Gli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione ma non l’hanno ancora ratificata sono: Benin, Camerun, Ciad, Comore, Gibuti, Gambia, Guinea-Bissau, Sierra Leone, Sud Africa, Sao Tomé e Principe, Tunisia e Sudan.

Di fatto quindi questo trattato quadro di Malabo non è stato sottoscritto da tutti gli Stati africani, mancando all’appello, tra gli altri, la Nigeria (la nazione più popolosa del Continente) il Kenya, l’Egitto e l’Uganda; tutti Paesi, peraltro, che rappresentano esempi di eccellenza nel settore della digitalizzazione.

Non v’è dubbio che la Convenzione di Malabo presenti nuove opportunità per l’affermazione dei diritti digitali nel continente. In primo luogo, entra in vigore in un momento in cui è già operativo l’Accordo sulla zona di libero scambio continentale africana (Afcfta), che mira a promuovere un mercato di libero scambio tutto africano. Inoltre, la Convenzione di Malabo viene, per così dire, integrata dalle leggi nazionali sulla protezione dei dati. Attualmente, 33 Paesi africani hanno adottato leggi sulla protezione dei dati a livello nazionale. Secondo i dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) pubblicati nel 2022, 33 Paesi africani (61 per cento) hanno una legislazione sulla protezione dei dati e 6 Paesi (11 per cento) hanno progetti di legge sulla protezione degli stessi, mentre 10 Paesi africani non hanno alcuna normativa a riguardo. È dunque evidente che il cammino è ancora lungo e impegnativo.

Ad un’attenta lettura del trattato quadro di Malabo risulta comunque la mancanza di regole dettagliate, mentre le procedure in materia di trattamento e protezione dei dati sembrano troppo esemplificative. Ad esempio, la Convenzione abbraccia più questioni in un unico paniere: protezione dei dati, commercio elettronico, criminalità informatica e cyber security. In secondo luogo, mentre la Convenzione richiede agli Stati membri dell’Ua di istituire un’autorità indipendente incaricata di proteggere i dati personali, nota come Autorità nazionale per la protezione dei dati (Ndpa) come delineato nell’articolo 11, non indica se gli Ndpa sono tenuti a cooperare al fine di rendere applicativa e dunque garantire il rispetto della Convenzione. Non v’è dubbio che l’entrata in vigore di questa normativa panafricana rappresenti, comunque, un’enorme pietra miliare per tutelare gli interessi informatici del continente.

di Giulio Albanese