
«Era come se ascoltassi leggende perdute / fiabe antichissime e amate / che un tempo, ancora bambino / ascoltavo dai bimbi del vicinato / quando nelle sere d’estate / sulle scale di fronte alla porta di casa / ci acquattavamo a quel sommesso narrare / con piccoli cuori protesi in ascolto / e gli occhi assetati di curiosità».
Contano di più gli occhi o il cuore? Per il bambino Heinrich Heine, che presto sarebbe diventato uno dei più grandi poeti in lingua tedesca, il problema non si poneva, e non si porrà neanche quando l’età avanzata avrebbe smussato gli entusiasmi e gli stupori dell’infanzia. Tra gli occhi e il cuore di un poeta permane un rapporto costante, un dialogo scandito dal potere dell’immaginazione che nel senso della vista trova l’origine e nel cuore l’elaborazione.
I poeti lo sanno da sempre, per tutta la vita verificano la persistenza di questo legame reciproco e ne fanno lo strumento per raccontare e riempire gli interstizi del mondo, quelli che tutti dovremmo imparare se non a frequentare quantomeno a cercare di intuire.
Ma questo è possibile solo se lasciamo a loro, ai poeti, di educarci alla tenerezza, a mantenere quei cuori protesi, quegli occhi assetati. Non è la retorica del fanciullino a indicarci il metodo, ma è la consapevolezza sobria e matura dell’incombenza di troppi spazi ciechi e vuoti della vita in cui la nostra mente si trova a vagolare inquieta, finendo per riempirli di impegni posticci, di necessità assolutamente non necessarie, utili solo a rincorrere il tempo, gara da sempre perdente per il genere umano.
Ecco invece l’attimo che mima l’eterno, l’attimo del raccoglimento, dell’ascolto, in cui ci si nutre non solo di poesia ma anche di esperienza che però solo grazie alla poesia allarga i suoi confini e trova da quelle parti remote un senso.
E allora ecco i bambini seduti vicino a Heine che sanno alzare lo sguardo oltre le scale, verso i balconi dove le ragazze più grandicelle sembrano quietamente indaffarate.
E poi c’è lui che è già poeta e vede con il cuore quello che gli altri non vedono, la benedizione celeste di quell’attimo irripetibile, intenso e profondo come una meditazione, quasi una preghiera: la quiete dei loro volti e una luce pudica che li scontorna come da un misterioso Altrove: «accanto a odorosi vasi di fiori / sedevano, alla finestra / i loro volti di rosa / ridenti e illuminati di luna».
di Saverio Simonelli