I lunghi capelli neri volteggiano nell’aria, accompagnando il suo allenamento. Mahdia, occhi color onice e sguardo determinato, inizia a praticare taekwondo all’età di 12 anni. Ma in Afghanistan, dove è nata, le arti marziali sono considerate uno sport unicamente maschile. Lei però persevera e, di nascosto, aiutata dalla madre e dalle sorelle, continua ad allenarsi fino a vincere i campionati regionali.
Ad agosto 2021, nel Paese i talebani tornano al potere e privano le donne di molti diritti. Mahdia e le sue sorelle fuggono da Kabul e, grazie all’Unhcr (Alto Commissariato Onu per i rifugiati), arrivano in Italia. Oggi Mahdia fa parte del Programma olimpico per rifugiati, e sogna di partecipare alle Olimpiadi di Parigi 2024. «Spero che un giorno tutte le donne nel mondo — dice — possano avere i loro diritti fondamentali e la libertà». E la parola “libertà” le strappa un sorriso.
Lo stesso sorriso che attraversa il volto di Divine, una vita da rifugiata sin dall’età di 5 anni. Nata nella Repubblica Democratica del Congo, è cresciuta in un campo profughi in Zambia. «Lì ho visto persone ammalarsi e morire di Ebola», racconta. Un’esperienza che la segna per sempre. Decide, allora, di studiare medicina, ma l’Università non ha posto per i rifugiati come lei: «Quando ho provato a iscrivermi, ho compreso la cruda realtà: io non ero come gli altri».
Fortunatamente, grazie ai programmi Dafi e Unicore promossi dall’Unhcr e che offrono a studenti rifugiati o rimpatriati meritevoli la possibilità di conseguire un diploma di laurea nel loro Paese d’asilo o d’origine, Divine corona il suo sogno: diventa una dottoressa. «Chi mi guarda — afferma con semplicità mista a coraggio — deve pensare che non esistono limiti».
E poi c’è Ayman che racconta la sua storia in una lingua mista tra arabo, francese e italiano. Una lingua che riannoda i fili di una vita nata e vissuta in Siria fino all’esplosione del conflitto interno, nel 2011. Una vita divenuta fuga in Libia, dove però le difficoltà sono aumentate, insieme all’insicurezza e alla violenza. Una vita approdata, infine, in Italia, grazie ai corridori umanitari dell’Unhcr. Insieme ad Ayman ci sono anche la moglie Mouna e il figlio Omar, affetto da leucemia. E quando sei malato, l’esistenza da rifugiato è irta di ostacoli, tra medicine introvabili e molto costose. Poi l’arrivo a Milano e l’inizio di una vita più serena. Soprattutto per Omar che, per la prima volta, ha messo piede in una scuola. E quando ha visto tutti gli altri bambini pronti ad accoglierlo, è scoppiato a piangere. Oggi, invece, Omar ride, ride mentre insegna a suo padre a contare in italiano, ride perché si sente al sicuro, ride perché ha finalmente una speranza di futuro.
Non a caso, l’odierna Giornata mondiale del rifugiato — istituita dall’Onu il 4 dicembre 2000 per il cinquantennale della Convenzione di Ginevra che, nel 1951, ha definito lo status di rifugiato — quest’anno ha per tema “La speranza lontano da casa”. «Più di 100 milioni di persone che vivono in Paesi sconvolti da conflitti, persecuzioni, fame e caos climatico sono state costrette a fuggire dalle loro case», afferma il segretario generale dell’Onu, António Guterres, in un messaggio. Tra loro, ci sono oltre 8 milioni di persone fuggite dall’Ucraina dal febbraio 2022. Senza dimenticare i rifugiati che cercano una vita migliore solcando il mare a bordo di barconi e andando incontro a un destino tragico: secondo l’Unicef, solo lungo la rotta del Mediterraneo centrale dal 2014 ad oggi hanno perso la vita oltre 21.000 persone.
«Questi non sono numeri su una pagina — sottolinea Guterres —. Si tratta di donne, bambini e uomini che intraprendono viaggi difficili, spesso affrontando violenze, sfruttamento, discriminazioni e abusi». Di qui, l’appello a «proteggere e sostenere i rifugiati», affinché possano «ricostruire le loro vite in modo dignitoso». Il che include «un’istruzione di qualità, un lavoro dignitoso, l’assistenza sanitaria, l’alloggio e la protezione sociale». Ma soprattutto, conclude Guterres, «abbiamo bisogno di una volontà politica molto più forte di fare la pace, in modo che i rifugiati possano tornare in sicurezza alle loro case», mettendo a frutto «la speranza che portano nel cuore». (isabella piro)