· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La sfida sempre attuale del diritto consuetudinario africano

Quando la giustizia
è ricerca dell’armonia

 Quando la giustizia è ricerca dell’armonia   QUO-132
09 giugno 2023

Quando noi occidentali parliamo del continente africano tendiamo istintivamente a scadere nelle generalizzazioni, dimenticando che proprio la dizione «pluralismo» caratterizza l’Africa nel suo insieme, sino a diventarne un tratto distintivo, anche sul piano giuridico. L’unica semplificazione plausibile può essere quella relativa alla distinzione tra sistemi giuridici tradizionali (vale a dire precoloniali) e i sistemi d’importazione imposti dai regimi colonizzatori stranieri, poco importa se di matrice islamica o europea, a cui si aggiungono fino ai nostri giorni le interazioni prodotte tra questi d’importazione. Bisogna comunque evitare di affrontare la questione del pluralismo accostandola esclusivamente alla semantica giuridica coloniale e post-coloniale, identificando il diritto afro in base alle influenze generate dagli ordinamenti stranieri. La verità è che esiste ancora oggi quella che gli inglesi in epoca coloniale definirono «traditional law» presente in tutti gli ordinamenti locali. Questo in sostanza significa che il cosiddetto diritto consuetudinario è ancora capillare e multiforme in Africa. In altre parole, non siamo di fronte a un singolo diritto tradizionale africano, ma piuttosto a una galassia di sistemi giuridici tradizionali a livello soprattutto rurale. Stiamo parlando di regole non scritte, prive di lessico tecnico, così come non vengono redatti resoconti sui procedimenti giudiziari.

Considerando che le società africane, tradizionalmente parlando, tendono ad essere caratterizzate da una visione dell’esistenza umana dove tutto è armonico e permeato dal soprannaturale, l’applicazione del diritto ha come scopo principale non tanto la punizione in quanto tale nei confronti di chi ha commesso il reato, ma il ristabilimento della coesione interna alla comunità. Il rispetto di tutte le norme tradizionali è comunque sempre stato garantito grazie a un sistema di ammende che possono variare secondo alcune variabili tra cui quella di appartenenza etnica o clanica. Il tipo di sanzione può andare dalla censura all’ammenda, all’ostracismo o anche all’esclusione. In linea di principio, questo tipo di giustizia tradizionale poggiava e poggia tuttora su principi diametralmente opposti a quelli della giustizia coloniale, svolgendo un ruolo di natura conciliativa, piuttosto che giurisdizionale. In altre parole il giudice consuetudinario, anziché applicare la legge, cerca di guidare le parti verso il raggiungimento di un compromesso in cui, più che dare ragione a una di esse e torto ad un’altra, si mira a ricercare una soluzione idonea a preservare gli equilibri sociali.

Per comprendere questa fenomenologia chi scrive ebbe la fortuna da giovane studente di teologia di trascorrere del tempo nel Nord Uganda, all’inizio degli anni Ottanta con padre Vincenzo Pellegrini, missionario comboniano, meglio conosciuto con l’appellativo di “Ce”. Grande conoscitore del popolo Acholi, con cui trascorse oltre 50 anni di apostolato, padre Pellegrini scrisse nelle sue memorie: «Assistere alla procedura di un tribunale Acholi è per noi europei, abituati a tutt’altre concezioni e mentalità, un vero teatro. Il giorno del giudizio è al lunedì, ma se necessario si procrastina nei giorni seguenti. I reati trattati possono essere baruffe per insulti, debiti e questioni famigliari. Non esiste un codice di leggi scritte e ci si regola secondo le tradizioni e costumanze etniche. In passato non c’era verbale scritto mentre oggi viene redatto e poi consegnato ad un ufficiale governativo». Padre Ce mi spiegò che le questioni da portare in giudizio debbono essere prima presentate al capo villaggio detto “Won Paco” e se non si perviene ad un accordo si passa al giudice zonale detto “Mukungu”. Nel caso la controversia perduri, si presenterà d’ufficio al sottocapo “Jago” e nel caso la causa si procrastinasse al capo detto “Rwot”. Fin qui può giungere il sistema giuridico tradizionale, altrimenti il caso viene portato al tribunale distrettuale che è improntato al modello della giustizia anglosassone, quella del Common Law. Sebbene il diritto consuetudinario preveda, a secondo dei casi, pene o multe, soprattutto quando un litigio viene perpetrato dentro le mura domestiche, le indagini vengono portate avanti dagli anziani e una volta individuato il responsabile si tende, dopo le opportune raccomandazioni, a promuovere la riconciliazione imponendo a chi viene riconosciuto colpevole di offrire una pecora per il sacrificio. Vengono poi aspersi con ramoscelli bagnati nell’acqua, gli ambienti dove è avvenuta l’offesa e il giudicante dichiara: «Kop dong otùm, komwu obed mayot» che significa: «La questione è dunque finita, che i vostri corpi siano sani». A meno che non siano avvenute biasimevoli violenze, l’intento della comunità è quello di suggellare un nuovo patto, il cosiddetto “tomo kir” che in lingua acholi significa “riconciliazione”.

Naturalmente, quanto finora abbiamo esposto si riferisce a una determinata etnia e comunque storicamente affonda le radici in quello spazio lasciato alle autorità tradizionali dai colonizzatori. Motivo per cui potremmo dire che ogni colonia aveva due sistemi giuridici: uno autoctono e un altro, come abbiamo già visto, imposto dagli occidentali. Ad esempio, nel caso della dominazione britannica, i possedimenti della corona erano regolati dalla direct rule e dalla indirect rule. Nel primo caso i nativi erano soggetti al diritto e ai sistemi giuridici della potenza coloniale e tale diritto garantiva le istituzioni necessarie al funzionamento dell’economia di mercato. Ecco che allora la cittadinanza apparteneva solo ai coloni e la maggior parte dei nativi non era titolare di diritti, rendendo essi subalterni e soggetti alla volontà dei coloni. L’indirect rule, invece, venne a configurarsi come la gestione delle aree rurali, la cui terra rimaneva delle comunità, motivo per cui le autorità locali divennero, così, delle amministrazioni locali, chiamate “distretti” dai britannici e “cercle” nelle colonie francesi. In sostanza, la direct rule era la dominazione nelle aree urbane o di interesse mercantile per la produzione delle commodity, mentre l’indirect rule risultava essere l’autorità etnica.

Ma proprio perché stiamo parlando di un continente al cui interno, da tempi ancestrali erano diverse le tradizioni giuridiche, proprio tra esse, le potenze coloniali privilegiarono quelle patriarcali, monarchiche e autoritarie, che meglio rispecchiavano il colonialismo. In tal modo, vennero favorite nella gestione delle amministrazioni locali alcune etnie a scapito di altre. Ciò che va sottolineato, comunque, è il lascito coloniale. Infatti, quando all’inizio degli anni Sessanta vennero trasferiti i poteri alle élite africane, senza alcun vero piano per la transizione, vi furono in Africa vari tentativi di soppressione o nella migliore delle ipotesi di tolleranza delle realtà locali tradizionali. Come ben evidenziò Basil Davidson, autorevole storico africanista britannico, l’apparato statale somalo racchiuse dentro di sé, durante l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (Afis), numerosi elementi in contraddizione tra loro, ignorando in gran parte gli aspetti tradizionali della società autoctona. Ad esempio, il codice civile, improntato al diritto di famiglia italiano, non includeva molte delle norme tradizionali raccolte nei testùr somali. Per non parlare del codice penale, basato prevalentemente sul diritto italiano, che non contemplava in alcun modo il concetto di responsabilità collettiva in rapporto all’organizzazione delle famiglie somale in gruppi allargati. Guai comunque a fare di tutte le erbe un fascio. Vi sono infatti casi virtuosi, come ad esempio in Senegal, uno dei Paesi africani che vanta un sistema giudiziario tra i più collaudati, in cui accanto ai tribunali dipartimentali, regionali, le corti d’appello e la corte di cassazione, esiste anche un sistema consuetudinario di risoluzione di certi tipi di controversie, come quelle legate alla proprietà fondiaria. Soprattutto nelle comunità rurali, godono di prestigio i Conseils ruraux che svolgono una funzione riconducibile grosso modo all’istituto dell’arbitrato. E a conferma di quanto sia sentito questo tipo di giustizia consuetudinaria, sovviene un detto molto popolare nell’Africa francofona: «Un bon arrangement vaut mieux qu’un mauvais procès», ovvero «Un buon accomodamento vale più di un cattivo processo».

di Giulio Albanese