· Città del Vaticano ·

I trent’anni di Casa Betania nel segno dell’accoglienza e della solidarietà

Con la porta sempre aperta

 Con la porta sempre aperta  QUO-128
03 giugno 2023

Se c’è una cosa che hanno imparato a Casa Betania è che bisogna lasciare sempre la porta aperta. «Perché solo in questo modo le persone possono entrare», spiega Silvia Terranera che nel 1993, con il marito Giuseppe Dolfini, fece nascere questa esperienza. Ed è così che in trent’anni al 12 di via delle Calasanziane, a Roma, sono entrate tante persone, ognuna con una storia diversa; esistenze segnate da abbandono, solitudine, sofferenza, separazione. Come Jo, un bimbo Rom disabile che, dimesso dall’ospedale, non poteva tornare a casa, ma dal quale la mamma non voleva stare lontano e veniva spesso a trovarlo. Fino a quando una mattina il piccolo Jo non si è svegliato. A Casa Betania ricordano con commozione l’abbraccio che la donna, straziata dal dolore ma colma di gratitudine, diede a chi andò a darle la terribile notizia.

Così come ricordano la giovane peruviana, gravemente malata, morta pochi mesi dopo aver dato alla luce Vittoria, ma in tempo per ritrovare, grazie agli operatori, il suo ragazzo italiano che, tra paura e incomprensioni, l’aveva lasciata: c’era anche lui ad accogliere quella nuova vita e a dire alla donna che amava che sarebbero andati a vivere insieme e che insieme avrebbero affrontato la malattia. E come dimenticare il ragazzo nordafricano che da una spiaggia libica era salito su un barcone diretto in Italia, ma che nella confusione si era separato dalla mamma e dal fratello più piccolo, finiti su un’altra imbarcazione che però non è mai arrivata.

Ma qui ricordano anche le tante storie a lieto fine. Come quella di Paolino, arrivato che era un bimbetto e che non molto dopo è stato accolto da una nuova famiglia con la quale vive da vent’anni. E quelle di altri piccoli che come lui hanno trovato una mamma e un papà, come pure delle tante mamme che da qui, rinfrancate, sono ripartite. Da quando è stata aperta sono oltre 150 i bambini e 180 le donne in difficoltà che a Casa Betania hanno temporaneamente trovato il calore di una famiglia: prima, quella di Silvia e Giuseppe, con i loro quattro figli, e ora di Justina e Arnaldo Iossa, anch’essi con quattro figli, che ne hanno preso il testimone dieci anni fa.

Tutto iniziò dall’incontro di alcune famiglie della parrocchia di Gesù Divino Maestro, zona Pineta Sacchetti, che per anni avevano fatto esperienze di affido di minori e di accoglienza di mamme con bambino, aiutandosi e sostenendosi in un percorso di apertura a quel tempo poco diffuso. Fu in questo gruppo che nacque l’idea di un luogo di accoglienza. La Provvidenza volle che in loro aiuto venisse una comunità religiosa, le Figlie di San Giuseppe Calasanzio, che diede in comodato d’uso un suo edificio, ristrutturato da quella prima comunità di famiglie e di volontari.

La famiglia Dolfini, che coltivava già da tempo questo desiderio, decise di andare a vivere nella nuova casa. Giuseppe — mancato quattro anni fa — e Silvia vi entrarono con i figli e i due bimbi in affido. Oggi, oltre a Casa Betania, che attualmente accoglie sette minori, ci sono altre quattro case. La Casa di Marta e Maria, che ospita fino a cinque donne con figli che attraversano un periodo di difficoltà, e tre “piccole case” — la Casa di Chala e Andrea, la Piccola Casa e la Casa sull’Albero — che accolgono ciascuna cinque bambini e ragazzi con disabilità gravi le cui famiglie non sono presenti o non sono in grado di prendersi cura di loro.

Ma non è tutto. Le donne “in uscita” che non possono ancora provvedere in modo autonomo a un alloggio hanno a disposizione alcuni appartamenti — presi in affitto dalla Cooperativa L’Accoglienza onlus, cui fanno capo le diverse strutture e attività — da condividere con altri nuclei mamma/bambino. Sempre per le mamme ospiti o uscite dalla struttura è attivo il Laboratorio solidale “Da tutti i Paesi”, dove realizzano creazioni artigianali di oggetti e di sartoria. Il desiderio è di vedere queste donne capaci di affrontare la vita con le proprie forze, senza più paura.

Silvia Terranera ancora oggi è stupita dal cammino fatto: «Quando abbiamo iniziato, tutto questo era inimmaginabile. Pensavamo di arrangiarci da soli, con l’aiuto delle famiglie con le quali eravamo partiti. Poi sono state le persone a venire da noi e a chiedere se potevano aiutarci. I volontari sono stati un dono inaspettato e sono diventati la nostra forza». Ma è convinta che quanto realizzato è frutto della Provvidenza. E di una intuizione semplice: «Non devi andare a cercare cosa fare — spiega — ma essere attento ai segni del quotidiano. Tanti progetti che avevamo pensato non si sono concretizzati, ma sono andati avanti quelli che davano risposte ai bisogni che via via si presentavano. Abbiamo piantato un piccolo seme dal quale sono scaturiti altri semi di solidarietà, di accoglienza, di fraternità, di vicinanza; semi che dobbiamo custodire. Così come vanno custodite le relazioni con le persone. Io custodisco nel cuore il ricordo di quanti ho incontrato».

Per la famiglia Iossa, che oggi è il nucleo di riferimento e che da sempre coltivava il progetto di un’esperienza comunitaria e di servizio, entrare a Casa Betania è stato il coronamento di un sogno. «Conoscevamo questa realtà — racconta Arnaldo — ma non avevamo previsto di venirci a vivere. Ed è un’esperienza che non si può immaginare se non la si vive. L’esperienza di genitorialità e famiglia allargata che facciamo qui non è assolutamente sperimentabile altrove, anche umanamente di inestimabile valore. Non possiamo che essere profondamente grati di questo, nonostante la grande fatica».

Anche Arnaldo e Justina, come prima Giuseppe e Silvia, possono però contare sui volontari: centinaia in questi anni, che hanno affiancato operatori e figure professionali specializzate. Sono giovani — alcuni del servizio civile — e adulti, anche nonni, impegnati in piccoli servizi, umili e silenziosi, ma preziosi: c’è chi porta i bambini all’asilo e a scuola, o a fare le terapie; chi li fa giocare e chi li aiuta nei compiti; c’è chi si alterna in cucina, chi stira montagne di panni, chi fa le pulizie. C’è anche un gruppo di cuoche che il mercoledì cucinano per la mensa dei poveri delle Missionarie della Carità al Celio.

«In questi trenta anni — sottolinea Matilde Dolfini, presidente della Cooperativa — tanti bambini e tante mamme sono stati accolti a Casa Betania e nelle altre case famiglia. Abbiamo imparato a conoscerli pian piano, con delicatezza, e loro hanno conosciuto noi, all’inizio un po' timorosi. Abbiamo percorso un tratto di strada insieme, condiviso il tetto e le storie, la tavola e sogni. Abbiamo spartito i pesi e ci siamo presi cura delle ferite, l'uno dell’altro. Abbiamo discusso, ci siamo arrabbiati, abbiamo fatto pace, abbiamo ricominciato, sperato, creduto, amato. Non tutte le storie hanno avuto un lieto fine e ne custodiamo il dolore, ma la maggior parte sì. E una vita che riparte, trova futuro e felicità, porta una gioia straordinaria».

A Casa Betania c’è sempre un via vai di persone. Ma in questi giorni il trambusto è maggiore. Il giardino che circonda la casa viene ripulito e risistemato. E si lavora agli stand che saranno allestiti per domenica 11 giugno, giorno della festa per i 30 anni: sarà un momento di gioiosa condivisione, ma soprattutto l’occasione per rendere grazie per il bene che qui si è concretizzato e per i tanti doni ricevuti.

di Gaetano Vallini