· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Il continente crede fermamente nel sistema partecipativo nonostante le difficoltà storiche

Democrazia
e integrazione africana

Gabu, Guinea-Bissau - April 13, 2014: Polling station, ballot boxes and international election ...
02 giugno 2023

Una delle fonti privilegiate per comprendere lo stato d’animo delle popolazioni africane è la piattaforma digitale Afrobarometer (in italiano Afrobarometro) che prende il nome dall’omonimo Istituto di ricerca panafricano. Il suo compito è quello di condurre indagini, ripetute regolarmente nel tempo, sul posizionamento dell’opinione pubblica afro su svariati temi che vanno dalla democrazia alla governance, dall’economia alle questioni sociali in oltre 30 Paesi del continente. Si tratta della principale fonte mondiale di dati di alta qualità su ciò che pensano davvero gli africani. Ebbene, stando ad uno degli ultimi rilevamenti risulta che «la maggior parte degli africani rimangono fedeli alla democrazia. Nonostante siano stati riscontrati numerosi tentativi per minare le libertà democratiche, la gente continua in gran parte a professare un credo partecipativo. Gli intervistati ritengono che i militari dovrebbero stare fuori dalla politica, che i partiti politici dovrebbero competere liberamente per il potere, che le elezioni siano comunque uno strumento imperfetto ma essenziale per scegliere i propri leader e che sia giunto il momento per le vecchie oligarchie, assetate di potere e ricchezza, di uscire di scena».

Sta di fatto che sebbene siano queste le istanze poste da coloro che rivendicano il diritto di cittadinanza, spesso è proprio «l’offerta di democrazia che i cittadini trovano carente. La percezione di una corruzione diffusa e in peggioramento è particolarmente corrosiva, lasciando le persone sempre più insoddisfatte rispetto ai sistemi politici che faticano a realizzare le loro giuste aspirazioni. La gente mira idealmente a vivere in società governate in modo democratico e responsabile. E sebbene trovino una miriade di modi per esprimere il loro stato d’animo afflitto da non poche preoccupazioni, la sensazione di vasti settori dell’opinione pubblica è che i governi facciano orecchie da mercante». Il tema è decisamente scottante perché è evidente che il benessere dell’Africa nel suo complesso non può prescindere dalla partecipazione popolare. In effetti, l’attuale congiuntura internazionale, a seguito della crisi russo-ucraina, rischia di avere effetti invasivi nella gestione della res publica africana. Come molti dei nostri lettori ricorderanno, alla fine del secolo scorso, l’estinguersi della “guerra fredda”, incentrata sulla contrapposizione dei blocchi Est-Ovest, accentuò la propagazione, anche nel continente africano, del modello politico liberaldemocratico; anche se poi in non pochi Paesi africani si manifestò, con modalità piuttosto evidenti, l’esatto contrario: il cosiddetto paradigma della democrazia illiberale.

Tale definizione, allusiva di forme distorte o parziali della democrazia liberale, trovò nelle cronache giornalistiche o nei resoconti diplomatici varie forme espressive quali ad esempio: democrazia incompiuta, democrazia pseudodemocrazia, democratura o regime ibrido. Un siffatto sistema, per dirla in estrema sintesi, si muoveva e in parte si muove anche oggi dal presupposto che il suffragio universale è sì una condizione necessaria, ma per nulla sufficiente rispetto ai valori della democrazia liberale (o pluralista), non coincidendo quest’ultima con la mera indizione delle consultazioni elettorali. Ecco che allora un numero non irrilevante di sistemi politici, non potendo fare leva più di tanto sul diritto costituzionale (manomesso soprattutto dai presidenti a vita), hanno palesemente manifestato le loro debolezze sistemiche: dall’estrema instabilità politico-istituzionale dei regimi di governo alla mala gestione delle economie nazionali. È comunque importante sottolineare che questa fenomenologia ha trovato la sua linfa vitale nell’azione corruttiva di potentati stranieri più o meno occulti che hanno pesantemente condizionato le scelte politiche all’interno degli Stati sovrani. Una vecchia storia che ha trovato il suo incipit quando venne inaugurato lo Scramble for Africa, ossia la brutale spartizione del continente concertata alla Conferenza di Berlino (1884) fino ai nostri giorni, una stagione segnata pesantemente dalla parcellizzazione degli interessi stranieri legati allo sfruttamento delle commodity.

Prima dunque il colonialismo in nome di una presunta missione civilizzatrice dell’uomo bianco e poi il neocolonialismo che ha fatto dell’Africa una terra di conquista nel vasto perimetro del mondo globalizzato. Tutto questo in un contesto in cui, a partire dall’epoca coloniale, si affermarono le dispute interetniche che stanno alla base dei conflitti all’interno degli Stati divenuti indipendenti, sorti all’interno dei confini delle ex colonie. Da queste rapidissime considerazioni emerge come in Africa, soprattutto nella macroregione subsahariana, dove ancora oggi le problematiche del Nation building — espressione utilizzata nelle scienze politiche per indicare il processo di costruzione di un’identità nazionale tramite il potere dello Stato — si sommano pesantemente a quelle dello State building nel senso di edificazione di un sistema statuale che possa rendere effettiva l’azione di governo. Detto questo, i venti di guerra che spirano nell’Europa Orientale stanno condizionando non poco i processi democratici in Africa. I governi si trovano a dover scegliere da che parte stare, se con le economie avanzate occidentali o le loro antagoniste, sperando, attraverso il temporeggiamento, di guadagnare spazi di iniziativa e influenza regionale. In effetti, una delle grandi preoccupazioni che assillano i principali decisori politici africani è quella di evitare, nei limiti del possibile, di finire invischiati nelle contese tra i principali attori internazionali. Nel frattempo, le frizioni Est-Ovest, in versione riveduta e corretta in confronto al passato, hanno acutizzato le perturbazioni sul piano socioeconomico, portando all’inflazione, all’aumento dei tassi d’interesse, al rischio di recessione e al crescente aumento dell’esclusione sociale.

Come se non bastasse nella regione saheliana e in vasti settori del Corno d’Africa e dell’Africa centrale, le popolazioni autoctone affrontano continue insicurezze a seguito dei conflitti armati. Questa instabilità sta alimentando una rinnovata tendenza alla militarizzazione che, per inciso, era un marchio di fabbrica della politica continentale negli anni ‘70. Eserciti e milizie di vario genere hanno sempre più dominato, silenziandola, la società civile, mentre i governi, per citarne alcuni, di Sudan, Ciad, Mali, Burkina Faso e Guinea sono stati tutti rovesciati negli ultimi anni. Tenendo sempre bene presente la disomogeneità — a volte anche estremamente marcata — delle condizioni socio-politiche-economiche che caratterizzano i Paesi dell’Africa subsahariana, l’agognato riscatto democratico sarà in diretta correlazione con la capacità delle classi dirigenti africane di affrontare con particolare profitto gli interessi comuni delle rispettive popolazioni. In un continente in cui l’età media è di 20 anni, sono soprattutto i giovani a chiederlo, come nel caso del movimento nigeriano Obidient.

Motivo per cui sarà in gran parte nell’avanzare del processo di integrazione continentale la chiave di volta per un cambiamento a favore della democrazia e della partecipazione. L’unico vero antidoto potrà essere dunque rappresentato dalla capacità endogena di creare un’effettiva sinergia tra i Paesi configurati nell’Unione Africana (Ua) che proprio quest’anno celebra i suoi 60 anni dalla fondazione del suo predecessore, l’Organizzazione dell’unità africana (Oua). L’edificazione di un impianto continentale destinato alla progressiva creazione di un mercato comune continentale rappresenta per l’Africa una via tutta africana per mettere in campo strumenti di sviluppo economico che hanno un potenziale enorme.

Il recente trattato sull’Area di libero scambio continentale africana (African Continental Free Trade Area – AfCFTA), che ha come obiettivo lo sviluppo dell’industrializzazione e del commercio intra-africano, attraverso la rimozione delle barriere tariffarie e non-tariffarie su beni e servizi, fa ben sperare. Non è un caso se uno dei principali maître à penser del Panafricanismo come il ghanese Kwame N’Krumah, in Africa Must Unite, pubblicato nel 1963, proprio nello stesso anno in cui venne alla luce l’Oua, scrisse, facendo riferimento allo scenario “guerra fredda”, queste testuali parole: «Attualmente, molti Stati africani indipendenti si stanno muovendo in una direzione che ci espone ai pericoli dell’imperialismo e del neocolonialismo. Ci occorre, perciò, una base politica comune per l’integrazione delle nostre politiche di programmazione economica, di difesa delle relazioni estere e diplomatiche. Questa base di azione politica non richiede la violazione dell’essenza della sovranità dei singoli Stati africani. Questi Stati continueranno ad esercitare un’autorità indipendente, ad eccezione di settori definiti e riservati all’azione comune, nell’interesse della sicurezza e dell’ordinato sviluppo dell’intero continente». Parole ancora oggi attuali.

di Giulio Albanese