Luisa l’ho incontrata nella parrocchia di Sant’Ippolito a Roma. Sorriso sempre vivo, disponibilità a 360 gradi. Il suo mestiere è: «Servizio di pronto soccorso sul 118». Di soccorsi ne ha fatti tanti. Sempre con il suo sguardo rassicurante. Direi, preveniente la paura, per dare sollievo. Una volta si è lasciata andare a raccontare una esperienza. La riporto. Con la gratitudine di chi riconosce l’importanza delle piccole cose che fanno grandi le persone e rendono la società diversa. Riflessioni che permettono di capire la ricchezza degli occhi capaci di entrare in un mondo che ai più sembra ostico e lontano. Eppure presente nelle migliaia (sì, migliaia!) di persone che nella nostra città sono invisibili, ma esistono. Ecco cosa ha scritto:
«[...] Certo, chi possiamo soccorrere in Via Marsala? Sempre loro, quelli che odorano di vino, gli ultimi.
Sì, il vino, il loro amico di vita.
Poi arrivi, lo guardi negli occhi e comprendi che, davanti a te, hai un uomo che ti sta chiedendo aiuto e che sa che il suo disagio, in quel momento, è il bruciore allo stomaco causato dell’assunzione di vino.
“Aiutami, dammi qualcosa che mi faccia stare meglio, portami in ospedale, non ho nessuno, ho freddo, non mangio da giorni... lo so che non devo bere ma sono disperato. Non farmi del male, gli altri mi picchiano, ti prego aiutami...”.
E i suoi occhi pieni di lacrime invadono la mia coscienza, le sue mani gelide toccano le mie, la sua barba incolta racconta di giorni passati senza essersi mai lavato. Davanti ad Antonio l’emozione non regge, il nodo in gola non va via, è lì e le lacrime velano gli occhi e l’unica cosa da fare è andare in ospedale tenendogli le mani fredde e gelide.
Trema davanti a me e l’unica coperta che ho in ambulanza gliela metto sulle spalle, un tè caldo una volta giunti in ospedale.
Di Antonio ce ne sono moltissimi, si trovano ovunque in ogni angolo della città e in ogni dove, ma oggi ho incrociato il suo sguardo e il suo saluto è stato: «Grazie Luisa, ti prometto che cercherò di non bere più, grazie perché hai pianto con me».
Forse Antonio ritornerà per la strada e lo ritroverò a bere vino, unico compagno di vita, ma devo ringraziare Antonio perché mi ha dato ancora più la certezza che i senzatetto non sono gli ultimi della società, ma dietro quegli occhi c’è un uomo con un cuore e una dignità che bisogna rispettare... E lì c’è Dio, lo so, c’è Lui!!!
Grazie ai miei colleghi Giovanni e Franco che mi hanno supportato e sopportato tutta la giornata di ieri...»
Le parole di Luisa ricordano il racconto fatto da un altro, molti, molti anni fa: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto... Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo asino, lo portò a una locanda e si prese cura di lui...» (Lc 10,30-34).
Racconto di Luisa, racconto di Gesù. In quest’ultimo, però, c’è una grande differenza che fa pensare: è l’atteggiamento del malcapitato del racconto caduto nelle mani dei briganti. Non dice niente. Non ha parole. Non ha voce. Forse, non attende nemmeno che qualcuno si fermi a soccorrerlo. È l’emblema dell’invisibile, ieri come oggi. Solo il cuore e le parole di Gesù — «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37) — ci spingono a fermarci. A queste parole con l’animo pieno di amore, ci hanno creduto in molti. Ci hanno creduto, san Francesco e san Camillo de Lellis abbracciando e baciando il malato, il lebbroso, il Cristo presente nell’“invisibile”. Ci ha creduto Luisa.
del cardinale Enrico Feroci