Con la storia di Berrich, iniziamo un “viaggio di ascolto” delle voci di donne e uomini che vivono l’esperienza della reclusione. Il progetto «I volti della povertà in carcere» è promosso dalla Casa Circondariale “F. Di Cataldo” - Carcere di San Vittore di Milano, dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, dall’«Osservatore Romano» e dal nostro mensile che, a partire da questo numero, pubblicherà stralci delle storie raccolte da Rossana Ruggiero, che confluiranno, poi, in un libro con le fotografie di Matteo Pernaselci.
«Quello che non si prova non si ricorda,
perché senza emozione non c’è memoria».
(Siri Hustvedt)
Berrich è tunisina, bionda, occhi castani profondi, abbronzata e con un bel sorriso che stride con la realtà carceraria. Arriva nella biblioteca del carcere, accompagnata da un’educatrice, e il colloquio inizia con un elogio alla bellezza, la mia e la sua, quella dell’espressività dei nostri occhi che si sono appena incontrati.
Quanta vita ha dentro Berrich! Ascoltare la sua storia è avvilente. Sembra una mano di poker in cui il giocatore, anziché scommettere soldi, ha scommesso la vita e ha perso tutto: dignità, salute, libertà. Dietro quel sorriso, che non cede il passo alla malinconia, ci sono un matrimonio combinato, un’unione civile e una convivenza; c’è la vita di una madre di due bambini, una di 10 e uno di 4 anni, di una donna diplomata come infermiera in Tunisia e arrivata in Italia per scappare dal primo matrimonio. Berrich ha lavorato ai Piani di Bobbio in Valsassina come cameriera, è diventata mediatrice culturale e ha fatto l’infermiera volontaria nei centri di accoglienza a Lecco, aiutando profughi e malati. La sua ultima storia d’amore le è stata fatale: la scoperta del tradimento del suo compagno con la sua migliore amica, l’ira, le offese e chissà cos’altro e poi... il fuoco che avvolge la casa. Quelle fiamme hanno continuato a divampare nella testa di Berrich e le sono entrate dentro, fino alla condanna a tre anni di reclusione.
Oggi Berrich è nel carcere di San Vittore, che considera “salvezza” e “paradiso”, perché la sua pena ha iniziato a scontarla altrove, in un’altra casa circondariale, dove ha vissuto il dramma degli scartati e degli oppressi: «Mi hanno trattata senza umanità e sono sopravvissuta per miracolo. Non avevo più fiducia in nessuno, quando sono arrivata a San Vittore. Qui è più pulito, ci sono attività, posso lavorare e sono rinata. Ci sono persone oneste che fanno il loro lavoro con passione. Sono ascoltata e aiutata dalla psicologa e dalle altre assistenti, dai volontari che ci dedicano il loro tempo e rappresentano un punto di sfogo aiutandoci ad uscire dai turbamenti». Tuonano forti le parole del Salmo «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi?» (Sal 8,5). Dio può ricordarsene! L’uomo non sempre, il più delle volte, in nome della violenza spicciola e del male gratuito, passa oltre o calpesta l’altro uomo senza aver pena di lui, che abbia colpa o no.
Berrich è come una tela bellissima corrosa dal tempo e da mettere in salvo; ci fa misurare sofferenza e pentimento, ma soprattutto la rabbia che l’ha accecata e ha prevalso persino sul bene verso i suoi figli; un errore che non ripeterebbe mai.
«Sei abbronzata — le chiedo — o sono queste luci?». «È il caffè che lascia l’abbronzatura, insieme al limone e all’olio Johnson. Non sono le sbarre che ci fermano, perché qua c’è vita... mi sento libera e mi amo. Metto sempre la mia persona al primo posto e questo me lo sta insegnando il carcere».
di Rossana Ruggiero