· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Una giornalista docente e una scuola per stranieri

La mia classe, che impara l’italiano e parla di Dio

 La mia classe, che impara l’italiano e parla di Dio  DCM-006
03 giugno 2023

Insegno italiano agli stranieri in una scuola serale di Padova. La percezione viva, è che io sono il loro primo approdo e loro sono il mio. Non subito, non sempre. Per esempio, la ragazza nigeriana che si chiama Cindy nelle prime settimane non riusciva a guardare il mio viso e distoglieva continuamente lo sguardo. A volte infilava le cuffiette e ascoltava dal cellulare sorridendo a qualcosa che non eravamo noi, in quel momento. Una sera ho consegnato le verifiche corrette e quella di Cindy era andata bene. «Sei brava», le ho detto. Allora ha alzato gli occhi e ci siamo riconosciute. La maggioranza è arrivata in Italia anche soltanto da una manciata di mesi, oppure da due o tre anni, ma non hanno mai frequentato una scuola italiana né sono mai entrati a contatto per lungo tempo con una persona del luogo come lo sono io. Dunque ci guardiamo come se fossimo giunti insieme sulla cima di una collina, ognuno proveniente da una direzione differente, finalmente riuniti in uno spazio comune. È un incontro che sorprende lezione dopo lezione. Gli studenti asiatici scoprono che gli occidentali dedicano un tempo considerevolmente ampio alla palestra, ai cani, alle serate al bar con gli amici. Gli studenti occidentali ascoltano con meraviglia come la giornata degli asiatici non comprenda altro che lavoro, famiglia e preghiera.

E in questo spazio comune, fin dal primo momento, Dio è sempre presente. Parlo del fatto che i miei corsisti, così vengono chiamati gli stranieri che seguono un corso di italiano, sono quasi tutti musulmani. Sono nati e cresciuti in India, Pakistan, Afghanistan, Libano, Marocco, Tunisia, Somalia. Le donne indossano il burka se bengalesi, soltanto l’hijab se indiane, oppure portano i capelli lunghi e liberi se maghrebine. I discorsi su Dio e la preghiera sono frequentissimi, poiché l’esperienza della fede è nelle cose concrete e quotidiane in una maniera che agli europei suona in parte anomala, nuovissima.

In questa dimensione di comunanza riesco a vedermi con i loro occhi. Porto i jeans, arrivo in macchina alla scuola, non sono sposata e non ho figli. Una donna senza famiglia, perché mai? Cosa può essere successo? Eppure, la sorpresa massima è arrivata quando ho risposto a una nuova domanda, per loro cruciale. Non prego il mio Dio? Cosa è accaduto di tanto grave? Una sera il gruppo è ridotto e gli argomenti della unità didattica conclusi; perciò, ci mettiamo in cerchio a chiacchierare. È previsto nel programma che agli studenti vengano spiegate le tradizioni del Natale e della Pasqua, comprese le abitudini che non sono direttamente collegate alla religione bensì alle radici antiche e pagane come l’albero illuminato, le uova, le luci che abbigliano le città. Vedete, ho indicato nella lavagna digitale, questa è la Palestina. È un luogo nuovo per molti di loro, nati in India o nelle sue vicinanze. «Qui Gesù è nato in una mangiatoia, accanto a due animali che riscaldavano la sua culla di paglia». Mi ascoltano con grande interesse. Poi, dico, Gesù ha cominciato a predicare. Raccontava delle storie per facilitare la comprensione, si chiamano parabole. «Ce ne racconti una», mi chiede Kazhi, il ragazzo bengalese. Dunque racconto la parabola dell’adultera che stava per essere lapidata, una delle mie preferite. «Voi, cosa avreste fatto?» chiedo alla mia piccola platea di studenti. La mia studentessa indiana conserva un sorriso enigmatico. È dibattuta. La donna ha sbagliato, ha commesso un fatto imperdonabile. «Gesù», dico, «dice che è facile pregare per i nostri amici. E che per questo occorre pregare per i nostri nemici». «Ma lei professoressa non prega» mi ricorda il ragazzo pakistano. Khalid ha soltanto diciannove anni, ne ha passati sei camminando dal Pakistan all’Italia. È riuscito a mantenere le sue abitudini e la sua fede come un sasso preziosissimo conservato nella sua tasca.

La studentessa nigeriana Cindy è pentecostale e interviene: «Dio guarda il cuore degli uomini e delle donne, vede se è buono. Questo è quello che conta». Il ragazzo del Libano tace perché un giorno mi ha confidato che non prega e non osserva il Ramadan; eppure, crede che esista Dio. Anche per lui è importante discutere, perciò dice: «Quando vedo un bosco, un fiume, il cielo stellato mi è impossibile immaginare che non esista un Dio che abbia creato tutto questo». È diventato amico dello studente somalo, che in pochi anni ha peregrinato in tutta l’Europa alla ricerca di un posto riparato, ha tre bambini che vivono in Svezia e che non può vedere perché hanno scoperto che ha lasciato le impronte digitali in Italia e dunque secondo la legge deve chiedere asilo in questo Paese che conosce appena.

Il ragazzo somalo, Hassan, non comprende l’uso del vino nella liturgia. Quando si avvicina la Pasqua racconto loro dell’Ultima Cena e nel frattempo cerco una immagine del Cenacolo di Leonardo da Vinci. «Gesù, nonostante sappia cosa stia per accadere, prende il pane – lo vedete sulla tavola? ». «Gesù diventa il pane che viene mangiato dai fedeli? ». Mi osservano con sbalordimento. Il ragazzo del Libano ha studiato la letteratura e insegna lingua araba: «Come per le poesie, le comprendiamo a un livello più intimo e saggio della nostra mente».

Le conversazioni con i miei studenti sono tra le più profonde che abbia mai fatto. Concludo parlando degli ultimi giorni della vita di Gesù e con la crocefissione. Mostro una immagine del Golgota: «Ecco perché i cristiani fanno il segno della croce e dicono amen». Amen? Sono stupefatti. Amen è la parola che pronunciano al termine della preghiera, amin. Durante il corso spesso troviamo parole nate e fiorite in luoghi distantissimi che suonano molto simili: l’italiano ‘babbo’ e ‘abbu’, in hindi. Scopriamo etimologie impensate: “sciroppo” e “ciabatta” in arabo suonano quasi identici all’italiano. E in Somalia sono rimaste nella lingua locale diverse parole italiane come “gonna” e “macchina”. In fondo il nostro è un tessere fili di comunanza. Il filo che prediligono è quello della fede, ma esistono molti altri fili: le parole, il cibo, la gentilezza. Spesso tutte le nostre trame si intersecano.

Un giorno ho pensato che la mia classe di italiano sia composta dalle persone che vorrei portare come esempio ai miei studenti di alternativa all’ora di religione, nell’istituto professionale dove insegno il resto delle mie ore. I ragazzi di questa mia classe hanno sedici anni e provengono da famiglie non credenti oppure famiglie straniere musulmane o protestanti. Sono inquieti, spesso apatici. Come moltissimi dei loro coetanei ai quali insegno inglese, possiedono svariati talenti ma non li saprebbero nemmeno nominare o, se già li hanno individuati, sembrano convinti che non serviranno a quasi nessuno. Non possiedono quel senso della famigliarità e della comunità che invece ritrovo nel mio corso di italiano. Sono spaesati, specialmente gli italiani. Somigliano tremendamente al protagonista del film che ho fatto loro vedere – Will Hunting, Genio Ribelle, dove un ragazzo vive una vita monotona e violenta finché non scopre di essere un genio della matematica. Eppure nel finale ciò che gli preme maggiormente non è la carriera universitaria bensì trovare una maniera per rimanere vicino alla ragazza di cui è innamorato. I miei studenti hanno amato moltissimo la pellicola.

Negli ultimi giorni di marzo è cominciato il Ramadan. Poiché il mio corso comincia alle otto della sera, i miei studenti musulmani del corso di italiano temevano di arrivare in ritardo perché dopo un giorno intero di digiuno devono mangiare e poi pregare. Kazhi, il ragazzo bengalese che ha trovato lavoro in un ristorante veneziano, arriva mezz’ora prima con del cibo in una piccola borsa e attende educatamente che i collaboratori scolastici aprano la stanza dove gli studenti della scuola possono finalmente fare l’iftar, l’interruzione del digiuno. Per prima cosa bevono acqua e mangiano dei datteri. Aprono le loro vaschette con cibo profumato. Le signore di famiglia, spesso bengalesi o marocchine, portano del cibo in sovrabbondanza per regalarlo ai compagni di classe che non hanno potuto cucinare perché nel pomeriggio erano al lavoro. Tutto accade in un silenzio di pace mentre dalla finestra lo sguardo incontra prima Sant’Antonino, la chiesa nel quartiere settentrionale di Padova che al suo interno conserva la cella dove spirò sant'Antonio il 13 giugno 1231, e poi il cielo colorato del tramonto.

La ragazza indiana Shaila arriva ormai quando è buio. «La bambina», mi dice sempre. Intende che ha dovuto attendere il ritorno di suo marito dalla scuola per non lasciare la figlia sola. Porta quasi sempre un contenitore con del cibo per me. Mi racconta che sta studiando anche per la patente di guida. E poi vorrebbe prendere la terza media. A sei mesi dall’inizio del corso sappiamo molto gli uni degli altri. Celebriamo la vita che succede. Il ragazzo polacco ha offerto dei cioccolatini quando ha acceso un mutuo mentre il ragazzo pakistano ha annunciato che si assenterà per una operazione chirurgica. «Ho paura», ha detto. Allora le donne bengalesi gli hanno preparato delle palline dolci al latte per consolazione.

di Laura Eduati