· Città del Vaticano ·

Una lettura del film

Il dramma della libertà
e l’ingiustizia del mondo

 Il dramma della libertà e l’ingiustizia del mondo   QUO-124
30 maggio 2023

Rapito di Marco Bellocchio è il classico film che finisce per far parlare d’altro. Per esempio della libertà di coscienza e di culto, di Chiesa e Modernità, di Chiesa, Italia e Risorgimento, di Chiesa e antigiudaismo, del rapporto tra la Chiesa e le altre religioni... tutti temi molto importanti e molto complessi, e tutti presenti tra le righe del film. Ma vorrei, qui e ora, parlare del film. Che è un film pieno di tristezza, tutti i personaggi principali li vediamo più volte commuoversi fino alle lacrime e così fa anche il pubblico, di fronte a questa storia drammatica quanto ingiusta.

A parere di chi scrive il senso di questo film è racchiuso in una scena che viene ripetuta due volte, all’inizio e poi verso la fine, in modo pressoché identico anche se con diversi personaggi. La prima volta vediamo il protagonista, il piccolo Edgardo, nascosto sotto la gonna della madre, abbraccia le sue gambe e guarda fisso in camera, ci guarda; nella seconda sempre lui è nascosto ma questa volta sotto il manto del Papa, Pio ix , abbraccia il suo corpo e guarda fisso in camera, ci guarda. Chiede protezione in entrambe le scene.

E la ottiene, in maniera goffa, precaria, provvisoria da queste due persone che gli vengono incontro, appunto per proteggerlo. Nel primo caso è l’inutile protezione proprio dal “rapimento”, nel secondo caso, molto meno drammatico, è l’utile protezione del Papa che lo aiuta a vincere nel gioco del nascondino a danno dei suoi compagni di scuola.

In quello sguardo “sotto coperta”, protetto nel cono d’ombra creato dalla madre e dal Santo Padre, c’è il cuore di questo film: il dramma di un bambino teso, conteso, da due spinte opposte, da due affetti (a cui cercherà di corrispondere) che finiranno per sconvolgerlo, lacerarlo.

Nell’ultima scena del film infatti vediamo ancora il primo piano di Edgardo, ma questa volta è allo scoperto, i due “protettori” sono morti e lui è solo, smarrito, anche se ormai adulto appare come un pulcino fuori dal nido e con le ali spezzate. Due spinte uguali e contrarie, quindi, due affetti verso la stessa persona ma molto differenti. Il primo affetto è quello della madre, forte, naturale, viscerale, al punto che la prima cosa che le vediamo fare è “rimettere” il figlio nelle sue viscere: è suo figlio, non possono vivere separati. La “potestà” sul figlio è sua e solo sua. La madre ne rivendica l’appartenenza, a lei e alla sua fede. Il secondo affetto è quello del Papa, un affetto speculare e opposto, anche questo rivendicativo, un affetto che, per come viene presentato Pio ix in questo film, suona innaturale, perché strumentale, legato alla caparbia affermazione della potestas pontificia che proprio in quegli anni il mondo gli stava contestando, fino al punto di sottrargli pezzo per pezzo il territorio su cui insisteva il suo regno temporale.

Nella ricostruzione di Bellocchio, man mano che Pio ix comprendeva, quasi con incredulità, di essere l’ultimo Papa Re e assisteva impotente alla fine del suo regno, cresceva in lui il (ri)sentimento, di esercitare il suo potere sulle persone e le cose, compreso quindi anche il diritto legittimo (come sovrano era anche il legislatore nel suo stato) di istruire alla fede cattolica il fanciullo Edgardo rocambolescamente battezzato.

Nel film appare evidente che l’affetto della madre è teso a tenere il figlio dentro le piccole mura domestiche, a proteggerlo dal mondo di fuori (e dalle sue “bugie”), mentre il gesto del Papa porta di fatto questa piccola storia bolognese dentro la grande storia del mondo, il piccolo Edgardo diventa un pedina all’interno del grande scacchiere della politica internazionale per cui sia il Papa sia i suoi detrattori si approcciano a lui strumentalmente, avendo altre mire e seguendo precise strategie.

Si intuisce che il tema che cova sottostante per tutto il film è quello dell’amore e quindi della libertà. Non a caso la battuta finale di Edgardo sarà: «È stata una mia libera scelta», anche se tutto il film spinge per rendere questa affermazione poco credibile.

Al centro tra l’affetto della madre e quello del Papa, si trova il personaggio più struggente del film, Momol Mortara, il padre del bambino rapito. Se gli altri hanno idee, mire, e strategie su Edgardo, lui ne è totalmente sprovvisto. Sballottolato tra la “regia” forte ed esigente della moglie e l’autorità assoluta del Pontefice, il padre di Edgardo può solo annaspare e rivelarsi del tutto inadeguato: è precipitato dentro una storia molto più grande di lui e ne rimarrà schiacciato.

In lui lo spettatore si può riconoscere più che in tutti gli altri personaggi e nel momento in cui si sfogherà contro se stesso prendendosi a schiaffi e urlando come un forsennato contro le storture del mondo, esprimerà il senso ultimo di questo dramma. In quel momento e in un altro, brevissimo e commovente: quando s’incontrerà per la prima volta con Edgardo a Roma dopo il rapimento e, nonostante i suggerimenti “strategici” dei suoi saggi consiglieri (dire al figlio che la madre sta impazzendo dal dolore per la sua mancanza), quando il bambino glielo chiederà non riuscirà a mentire e gli dirà: «La mamma sta bene», con un sorriso incoraggiante. Il suo è l’affetto più debole e sgangherato, per questo è il più forte e libero e meno “complice” di tutti, ma forse non basterà a proteggere il piccolo Edgardo dall’ingiustizia del mondo, che poi è il destino di tutti i genitori.

di Andrea Monda