Nel consueto saluto dopo il Regina Coeli, ieri mattina il Papa ha innanzitutto ricordato il poeta e romanziere Alessandro Manzoni di cui una settimana fa, il 22 maggio, si commemorava il 150° anniversario della morte. Elogiandone l’arte letteraria, il Papa lo ha ricordato come «cantore delle vittime e degli ultimi» e poi ha fatto riferimento alla storia raccontata nel suo capolavoro, il romanzo I promessi sposi, da lui molto amato.
In questi dieci anni Francesco spesso ha parlato dei poeti, dell’arte e della letteratura in particolare, come quando, ad esempio, tornando dal viaggio in Oriente fece riferimento al “deficit di poesia” che affligge i paesi occidentali. Per non parlare di Dostoevskij, sovente citato soprattutto sul tema della libertà, o di Virgilio o dello stesso Dante a cui il Papa ha voluto dedicare un’intera lettera apostolica, la Candor lucis aeternae.
Questi continui riferimenti rivelano non solo l’ampiezza delle letture di Jorge Mario Bergoglio quanto invece la profondità della sua visione da credente e da pastore, cioè non ci troviamo in una zona marginale della sua vita di uomo di fede ma nel suo cuore. In questo è illuminante leggere l’articolo di padre Antonio Spadaro apparso sul numero del 4 marzo de La Civiltà Cattolica su La letteratura nella formazione di Papa Francesco ma, ancora di più, le stesse parole che il Papa ha pronunciato nel discorso di sabato scorso rivolto ai partecipanti al convegno de La Civiltà Cattolica con la Georgetown University «L’estetica globale dell’immaginazione cattolica».
All’inizio di questo discorso, dopo aver citato appunto Dante e Dostoevskij, il Papa afferma che «Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, approfondire la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte».
Un’affermazione potente: la poesia come strumento di approfondimento anche per la propria fede. Uno strumento da maneggiare con cura però, perché è «come una spina nel cuore». Niente di idilliaco, non è una passeggiata tra i fiori, ma un’esperienza drammatica, se non abissale. Questa spina assomiglia ma non è la “spina nella carne” di cui parla San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, che mortifica e tiene a bada il rischio della superbia. Certamente c’è un rischio anche nella letteratura se diventa una fuga dalla realtà, un’alienazione frustrante che porta Mallarmé ha sospirare nella poesia Brezza marina «La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri». Ma questa è una spina che non mortifica ma anzi vivifica perché, dice il Papa, spinge alla contemplazione e al cammino. Passando (in modo un po’ brusco) da Mallarmé a Ian Fleming, viene in mente un personaggio di una storia del famoso agente 007 che, sparato al cuore non è (ancora) morto, anche se il proiettile continua ad avvicinarsi all’organo vitale e questo fatto ha, come effetto collaterale, l’ambivalente “privilegio” di non sentire più alcun dolore fisico.
La spina nel cuore di cui parla il Papa sviluppa l’effetto opposto: non anestetizza ma rende ipersensibili. La parola letteraria realizza questo effetto: aumenta (la parola “autore” viene dal verbo augeo in latino: aumentare, far crescere) e fa crescere l’esperienza di vita del lettore che diventa più sensibile, acquisisce uno sguardo più ampio, acuto e profondo. L’artista sente “di più” e sentendo permette agli altri di sentire. È uno strumento ricetrasmittente l’artista, come riceve un “urto” (di dolore o di gioia) dalla vita, lo rimette in circolo, con il suo timbro unico e inconfondibile, il suo stile che lo distingue tra mille altri artisti.
Questo ruolo di opposizione alla tendenza, oggi molto forte, di cercare modi per “anestetizzarsi” rende il poeta e ogni artista una figura fondamentale all’interno del corpo sociale. Perché l’arte scuote e risveglia le coscienze. Nel discorso di sabato il Papa ha spiegato che gli artisti sono «la voce delle inquietudini umane», quelle inquietudini che spesso finiscono «seppellite nel fondo del cuore». Da questo punto di vista, dice il Papa, «voi sapete bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante, perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche», il compito degli artisti è quindi quello di essere «creativi, senza addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Io ho paura di questo processo di addomesticamento, perché questo toglie la creatività, toglie la poesia. Con la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano».
Il 21 novembre del 2009, nell’incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, Benedetto xvi citava Platone per cui «Una funzione essenziale della vera bellezza […] consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere — egli dice — senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. Gli fa eco il pittore Georges Braque: «L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura». La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo».
L’inquietudine, il turbamento che gli artisti provocano diventa un lavoro fondamentale perché vitale, nel senso letterale, fonte di vita. Soprattutto per il cristiano, che trova un aiuto nel lavoro dei poeti che consiste, ricorda Francesco, nel «dare vita, dare corpo, dare parola a tutto ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza. È un lavoro evangelico che ci aiuta a comprendere meglio anche Dio, come grande poeta dell’umanità. [..] non smettete di essere originali, creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi!». Quest’ultima esortazione, che il Papa a braccio ha ripetuto a due volte, è quasi identica a quello che scrive Chesterton nella sua Autobiografia uscita nel 1937 l’anno successivo alla sua morte: «Questo fu il mio primo problema, quello di indurre gli uomini a capire la meraviglia e lo splendore dell’essere vivi». L’arte come antidoto contro la noia e la tristezza e, aggiunge Francesco, «la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al nostro immaginario».
Antidoto alla “scontatezza” si potrebbe dire. Il poeta argentino Borges comparava in qualche modo la filosofia e la poesia, entrambe geenrate dallo stupore e osservava come «senza dubbio, la nostra esistenza è un fatto curioso. […] il fatto di stupirsi di fronte alla vita può essere l’essenza della poesia. La poesia consiste nel sentire le cose come strane […] L’unica differenza è che nel caso della filosofia la risposta viene data in maniera logica, mentre per la poesia si usa la metafora».
Questo approfondimento di oggi, dedicato a Virgilio, ospita proprio una pagina di Borges sul grande poeta latino da lui (e dal Papa) molto amato. È solo un primo approfondimento al quale seguiranno altri sulla poesia e la letteratura, espressioni di quella creatività umana che è il dono in cui è immediatamente rintracciabile la firma del Creatore.
di Andrea Monda