· Città del Vaticano ·

Il discorso pronunciato dal cardinale Zuppi

«Intelligente rotellina della grande macchina di Dio»

 «Intelligente rotellina  della grande macchina di Dio»   QUO-122
27 maggio 2023

Tutti dobbiamo leggere di nuovo Lettere a una professoressa e ricordarci che è indirizzata anche a noi. Accettiamo il rigore, l’intransigenza di don Milani. Non è eccesso, ma intelligente amore, evangelico e umano, che aiuta a capire da che parte stiamo e a verificare senza sconti dove siamo stati. E capirlo ci toglie qualche giustificazione ipocrita, ci fa comprendere le omissioni, la falsità della neutralità ma anche ci aiuta a scegliere. Don Milani non può essere ridotto a banale politically correct, facile esortazione o denuncia. Ferisce, perché svela le parole vuote, la retorica che copre l’inedia e chiama questa per nome, senza sconti. Come disse di lui don Benzi, don Milani è «un diamante che doveva ferirsi e ferire». Egli ci mette di fronte alle nostre responsabilità di ruolo e di paternità, ci chiede di farci carico di chi è più fragile e non di fornirgli istruzioni per l’uso senza aiutarlo, sistema che fa sentire a posto chi può sempre dire «io lo avevo detto» ma senza che si sia mai dato da fare per aiutare.

Don Milani ci costringe tutti a venire ancora in questo “non luogo” da dove capiamo i nostri luoghi. Barbiana è un piccolo universo che ci fa vedere tutti i luoghi dei bambini di sempre e di oggi, i figli delle tante Barbiana nascoste nelle case delle periferie o nei campi profughi, dove accettiamo crescano migliaia di bambini senza futuro e senza scuola. Don Milani ci costringe a sporcarci di fango, di vita vera perché non si lascia certo ridurre a oggetto da salotto senza cambiare il salotto o senza uscirne, proprio come aveva fatto lui, borghese, colto, che scelse di imparare diventando maestro e alunno dei poveri, stando dalla parte dei poveri per trovare la propria parte, profeta intransigente di cambiamento, obbedientissimo e per questo libero prete della sua Chiesa senza la quale non voleva vivere.

Ecco la lezione di don Milani, per tutti, credenti e non, prete e cittadino italiano: per cambiare le cose non serve innamorarsi delle proprie idee, ma bisogna mettersi nelle scarpe dei ragazzi di allora e di oggi, degli universali Gianni e non darsi pace finché non siano strappati da un destino già segnato. Don Milani crede che essi possano essere quello che sono e che questo può essere raggiunto solo grazie ad una scuola che li difende più di qualsiasi altra maestra, una scuola che non certifica il demerito ma che garantisce a tutti il loro merito, le stesse opportunità perché non taglia la torta in parti uguali, quando chi deve mangiare non è uguale. Perché la scuola, scriveva, «siede tra il passato e il futuro». E la sfida del futuro inizia nella scuola.

Sentiamo la ferita che le disuguaglianze sono aumentate in questi venti anni, come l’abbandono scolastico. «Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che si vuol dir uomo». La parola per lui era sacra e profana insieme, perché è quella che ci rende immagine e somiglianza di Dio.

La sua è stata una vita brevissima, alla quale la Chiesa italiana e tutto il nostro Paese deve molto. Ha fatto della radicalità evangelica (perché c’è un Vangelo tiepido?) il senso del suo amore alla vita e della sua fedeltà a Cristo. Da credente. «Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati quelli che hanno fame e sete”».

Tre aspetti e tre riferimenti biblici. «Dai loro frutti li riconoscerete» (Matteo 7, 19). Con il passare degli anni ci siamo accorti dell’eredità di don Milani guardando alla sua fecondità generativa. Don Lorenzo si è rivelato uno straordinario formatore di coscienze. «Vedeva i ragazzi come potevano essere», non solo come erano di fatto. Calenzano e Barbiana sono diventati patrimonio dell’umanità e riserva civica di democrazia per il nostro Paese. Scuola, lavoro, economia, politica e società si tengono sempre insieme. Ha accompagnato le persone ad assumersi responsabilità nella vita, non accettando fossero prigionieri del consumismo, passivi e catturati dal tanto, offerto per non pensare. «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale».

Il secondo: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Matteo 19, 24). I poveri lo hanno convertito. «Devo tutto — scrive in Esperienze pastorali — quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Da qui il suo impegno perché si superasse l’atavico pericolo che la povertà e la ricchezza venissero tramandate di generazione in generazione. Mettere i poveri al centro della vita trasforma la storia: Gesù Cristo ce lo ha insegnato con chiarezza e il priore di Barbiana li ha semplicemente messi al centro. Non si è Chiesa se non si è di tutti, ma particolarmente dei poveri, e, solo perché dei poveri, è di tutti.

Infine «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo» (Salmi 118, 22-23 in Matteo 21, 42). La Chiesa stessa ha faticato a comprendere il messaggio di don Milani. L’«esilio di Barbiana», come lo si è chiamato, è stato da lui accolto con sguardo di fede, nonostante fosse consapevole che potesse suonare come un’incomprensione, un insulto alla sua «onorabilità d’uomo, di cattolico e di sacerdote», come scrisse alla madre l’11 aprile 1963. La condanna nel 1958 di Esperienze pastorali, con la richiesta del ritiro dal commercio, è rientrata solo nel 2014 e pienamente riconciliata dalla visita di Papa Francesco che volle onorarlo; pregò sulla tomba di questo prete cercatore di assoluto (non è la vita tutta che lo cerca?) che non voleva il suo apostolato fosse un fatto privato e riconoscendo nella sua vita «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa».

Don Lorenzo ha trasformato un esilio in un esodo, ha preso per mano la Chiesa, rivendicando il suo servizio agli ultimi come dimensione spirituale e servizio ecclesiale. «Speravo di non esser più un “genio isolato e superiore”, ma una intelligente rotellina fra le tante della grande macchina di Dio». Oggi ricorda alla Chiesa che le basta il Vangelo e l’amore che genera amore e alla Repubblica che deve ancora «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» perché l’uguaglianza è il suo “compito” da non tradire. Don Lorenzo ci mette in cammino verso il futuro, con la vera risposta che è la passione evangelica e umana capace di generare vita.

Il futuro, la bellezza della vita, benedetta e più forte delle paure, per cui vale la pena viverla e donarla, è tutto nel I Care. I Care ci libera dall’osceno e disumano “me ne frego”, anche quello detto con più raffinatezza. Il primo I Care è quello di Dio, il miglior maestro e padre.

Grazie don Lorenzo. Ti dobbiamo tanto I Care. Il tuo ci aiuta a non averne paura. Anzi ad avere paura di non viverlo. Perché avevi ragione come pregasti: «Signore, io ho provato che costruire è più bello che distruggere, dare più bello che ricevere, lavorare più appassionante che giocare, sacrificarsi più divertente che divertirsi. Signore Gesù fa ch’io non me ne scordi più».

di Matteo Zuppi