· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Nel continente i proverbi non sono formule obsolete, bensì un patrimonio orale straordinario

Le radici della saggezza africana

 Le radici  della saggezza africana  QUO-115
19 maggio 2023

Nella cultura occidentale è diffusa la convinzione che i proverbi siano formule obsolete, ormai al tramonto nella prassi linguistica, anche se poi vi sono illustri studiosi i quali, pertinentemente, ritengono sia vero l’esatto contrario. Come ha evidenziato in un pregevole studio Vincenzo Lambertini, «sebbene i proverbi abbiano a volte una frequenza d’uso poco elevata, la loro enunciazione non passa inosservata. Quando in una conversazione si cita un proverbio, i partecipanti riconoscono che si tratta di un enunciato che condensa un significato molto più profondo». Questa osservazione potrebbe essere riferita anche alle popolazioni afro di seconda, terza generazione che si sono insediate nei grandi centri urbani disseminati nel vasto continente africano. Nelle zone rurali, invece, il loro utilizzo è frequente soprattutto tra gli anziani. Ogni etnia in Africa dispone del proprio corredo di proverbi, massime e detti popolari formulati e raccolti nel corso di più generazioni. Essi riflettono la visione del mondo e rinsaldano i legami esistenti all’interno delle comunità etnico-linguistiche. Poiché sono carichi di simboli e questi nel linguaggio tradizionalmente influenzano il pensiero, è importante capire cosa avviene linguisticamente, quali siano gli escamotage stilistici e formali che rendono una determinata formula, apparentemente innocua, capace di influenzare, a volte anche in maniera inconscia, il destinatario del proverbio. Tutto ciò non è legato solo al contenuto dell’enunciato, di carattere ora moralistico, ora sapienziale, ora superstizioso, perché come una qualunque frase o un qualunque discorso, potrebbe lasciare il tempo che trova. Ma anche alle sue peculiarità stilistiche unitamente alla loro capacità di saper rispondere adeguatamente a ogni situazione.

Molti di questi proverbi mettono in evidenza le luci e le ombre delle culture autoctone, anche se poi spesso hanno come fine il compito di educare la comunità sui comportamenti da assumere nella vita sociale e privata. Trasmessi nei secoli, di generazione in generazione, rappresentano uno straordinario patrimonio orale che, a seguito della cosiddetta post-modernità — fenomeno capace di contaminare non solo gli occidentali, ma anche le popolazioni locali, soprattutto nelle città africane — può andare perso con la scomparsa degli anziani. Uno degli aspetti cruciali che caratterizzano questi saperi afro è l’idea di persona, dalla quale implica inevitabilmente, la questione filosofica. Questa pretesa si basa sulle tradizioni ancestrali che per millenni hanno sostenuto e guidato popolazioni intere fino ai nostri giorni. La legittimità di questo modello africano, come rileva padre Oliviero Ferro, missionario saveriano, si evince, ad esempio, nel ruolo sociale degli anziani: «Sono loro i detentori della saggezza, di cui i più giovani hanno bisogno; loro fanno da maestri dei neofiti in crescita. Sono i compagni di vita dei piccoli del clan. (…) Gli anziani, nell’Africa tradizionale, sono la bocca della verità. La loro esperienza di vita è l’aula dove i più giovani possono entrare ed attingere alle vie maestre del sapere, saper fare e saper vivere». D’altronde — è bene sottolinearlo — è stata la saggezza di un intellettuale del calibro di Amadou Hampâté Bâ, scrittore, storico, poeta maliano, sempre stato convinto della centralità dell’oralità nelle culture africane, a scandire queste precise parole: «In Africa, quando muore un anziano brucia una biblioteca».

Ma attenzione: per quanto i proverbi siano espressioni verbali legate a esperienze che hanno lasciato il segno, indicando precisi campi d’azione e percorsi per perseguirli, tuttavia essi additano anche i pericoli sottolineando le contraddizioni degli umani. A questo proposito, padre Nazzareno Contran, missionario comboniano recentemente scomparso, sottolineava come i proverbi afro stiano dicendo che la saggezza umana, da sola, non sarà sufficiente per portare la pace sulla terra. Ecco alcuni esempi. Da una parte l’accortezza del popolo Kongo afferma: «È impossibile fare la pace con una spada» (Repubblica Democratica del Congo — Rdc); un giudizio sostenuto da un’altra etnia congolese, quella Mongo: «La guerra non è la soluzione a nessun problema» (Rdc). Di converso, lo stesso popolo Mongo, in un altro proverbio, afferma: «Senza guerra, non c’è pace» che richiama alla mente la celebre locuzione latina: «Si vis pacem para bellum» (Se vuoi la pace preparati a fare la guerra). Un indirizzo che trova la sua risonanza in un proverbio Chitong: «La violenza è sotto gli occhi di tutti: la guerra è spontanea» (Zambia) o in un’altra etnia congolese, quella Nyanga: «Gli uomini che odiano rimangono in vita; i pacificatori muoiono (Rdc), per non parlare del cinismo Wolof: «La pace è un certificato che ti danno quando entri in un cimitero» (Senegal).

Ma non è tutto qui: la decisione di andare in guerra comporta, tra le altre cose, una particolare forma di ingiustizia: «Gli anziani prendono la decisione di andare in guerra, ma sono i giovani che devono andarci» (Baoulè — Costa d’Avorio). Questa dialettica tra gli estremi si evince anche in riferimento al pentimento. Da una parte vi è l’odio nei confronti del nemico: «Puoi uccidermi, ma qualcuno mi vendicherà (Zande — Sudan); di converso gli Ibgo esprimono un’istanza pasquale: «Se non ci fossero reati, non ci sarebbe alcuna grazia» (Nigeria) a cui si aggiunge la saggezza Amhara: «Perdonare è insegnare »(Etiopia).

Padre Bruno Carollo, scomparso nel 2020 e profondo conoscitore della cultura Lango (Nord Uganda), ha sempre ritenuto che i proverbi tra le popolazioni nilotiche sostituiscano in modo efficace un discorso più lungo, godendo al tempo stesso di una grande autorevolezza procurata loro dalla trasmissione intergenerazionale. Ciò presuppone che essi siano facili da memorizzare e che siano oggetto di un ampio consenso all’interno della comunità.

Una cosa è certa: questo magma di saperi trova risonanza negli scrittori africani: l’inclusione di parole, frasi e strutture sintattiche delle proprie lingue madri riportate nelle rispettive lingue dei colonizzatori, nonché l’espressione letteraria modulata sui ritmi della musicalità afro, che condensa visioni del mondo da vari punti di vista: antropologico, sociologico, filosofico e religioso. Poco importa che si tratti di miti, racconti, leggende e appunto proverbi. Emblematico a questo riguardo è stato il grande scrittore nigeriano Chinua Achebe. «Gli africani — scrisse in un saggio apparso nel 1964, The Role of the Writer in a New Nation — non hanno sentito parlare per la prima volta di cultura dagli europei; … le loro società non erano senz’anima, anzi spesso avevano una filosofia di grande profondità e bellezza; … avevano poesia, e soprattutto dignità. Proprio questa dignità gli africani persero quasi interamente durante il periodo coloniale, ed è questa dignità che devono recuperare oggi… Fra gli Igbo c’è un proverbio che recita così: “Un uomo che non sa dire dove la pioggia lo ha colpito non sa neppure dove il suo corpo si è asciugato”. Lo scrittore deve dire alla gente dove la pioggia lo ha colpito». Ecco che allora negli scritti di Achebe emergono palesemente il simbolismo, il ritmo, l’emozione, non soltanto per guarnire il quadro estetico ma principalmente per conseguire lo scopo della formazione, dell’educazione e della saggezza di cui tutti abbiamo grandemente bisogno.

di Giulio Albanese