Al servizio
Il mio primo incontro con Mario Agnes risale alla fine degli anni Ottanta, quando era ricercatore nella facoltà di Magistero a Roma, dove io ero cultore della materia presso la cattedra di Storia del cristianesimo tenuta da Andrea Riccardi. Da allora è cominciata una lunga amicizia segnata da stima e affetto reciproci. Uno degli aspetti di questo rapporto umano e professionale è stato per me la collaborazione con «L’Osservatore Romano», da lui diretto: un impegno importante per il mio percorso umano e professionale.
Nel ricordarlo, a cinque anni dalla sua scomparsa, vanno sottolineati i legami che ha sempre conservato con la sua famiglia — i fratelli Agnes: Biagio, direttore generale della Rai, Lisa sempre accanto a lui, il maggiore Angelo — e con le sue radici irpine, l’attaccamento ad una terra che tanto ha dato nel secondo dopoguerra alla cultura e alla politica dei cattolici in Italia. Agnes era infatti un laico cattolico italiano, figlio di una tradizione di fede meridionale, ma soprattutto di una militanza popolare cattolica, come si viveva in quell’epoca.
Una militanza che lo portò ad essere presidente dell’Azione Cattolica in anni difficili, dal 1973 al 1980, dopo la presidenza di Vittorio Bachelet, che fu poi barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980 dopo una lezione alla Sapienza. Gli anni di Agnes all’Azione Cattolica furono segnati tra l’altro dal convegno del febbraio 1974 sui “mali di Roma”, dal primo Convegno ecclesiale nazionale del 1976 dal titolo «Evangelizzazione e promozione umana», dal referendum sul divorzio, dall’assassinio di Aldo Moro.
Ho avuto modo di constatare che, anche quando ebbe ruoli importanti, Agnes si celava in una grande riservatezza, proverbiale, rifiutando inviti e frequentazioni politico-diplomatiche. Era a disagio nel mondo dei salotti romani, appariva taciturno, timido, eccessivamente schivo, ma — per chi lo ha conosciuto da vicino — era sempre molto informato sulla società e sulla Chiesa. In realtà era un uomo d’intelligenza acuta, dalla battuta frizzante e molto combattivo. Una vivacità che si mostrò lungo tutto il corso della sua presidenza dell’Azione Cattolica per gli innumerevoli rapporti personali con i maggiori protagonisti del mondo cattolico di quegli anni, da Moro a Fanfani, da De Mita a Zaccagnini. Cattolico popolare e montiniano, era un fervente sostenitore di Giovanni Paolo ii, di cui ricordava sempre l’espressione detta a Spalato: «qui la storia non stava zitta», perché la cattedrale della città sorge sul mausoleo di Diocleziano, un grande persecutore dei cristiani. Papa Wojtyła lo stimava molto, tuttavia pur facendo parte del cerchio di intimi del Pontefice viveva questo con molta riservatezza.
Per «L’Osservatore Romano» — di cui ripristinò la rubrica Acta Diurna — si occupò di far risuonare la voce del Papa nel quadrante internazionale. Come quando, nel 2003, con la guerra all’Iraq, Giovanni Paolo ii divenne leader indiscusso di una pace senza aggiunte inviando i cardinali Etchegaray e Laghi da Saddam e da Bush. Per lui il giornale, nonostante le sue difficoltà, doveva costituire tra l’altro un ponte tra il Papa e il popolo cristiano. Doveva esprimere quella paternità universale che il Pontefice rappresentava in un mondo globale. Il 3 settembre del 2000, alla beatificazione di Giovanni xxiii, guardandosi intorno, Agnes diceva: «Vedi quanta gente diversa ha riunito sotto le sue ali Papa Giovanni: questo è il papato».
Gli ultimi anni di Agnes sono stati vissuti nell’oblio e quasi da eremita. Malgrado la crescente malattia, quasi nessuno, eccetto i familiari e rarissimi amici, lo visitavano. Restava però — come posso testimoniare personalmente — assetato di sapere del mondo e delle sue amicizie. E continuava a seguire il “suo” giornale, «L’Osservatore Romano», di cui aveva la convinzione che dovesse essere la voce del Papa, farsi cultura, dibattito e viva informazione. In altre parole, sempre e comunque, il giornale del Papa.
di Marco Impagliazzo