Cosa farebbe una madre per i propri figli? Chissà quante volte a questa domanda abbiamo risposto: «Tutto», perché, è vero, una madre sarebbe disposta a dare la vita per un figlio, come se mai si fosse staccato dal suo grembo.
A Milano, al Laboratorio di Ostie della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti abbiamo conosciuto una madre coraggiosa, segnata dalla sofferenza. Sorayda si lascia incontrare nel luogo del suo dolore e si racconta. «Sono domenicana e mamma di sei figli. Ero proprietaria di un bar bellissimo, aperto con tanti sacrifici, per cui ho ipotecato tutti i miei beni, compresa la casa. A causa del Covid, non avevo più soldi per pagare i debiti e ci siamo ritrovati poveri. A mio figlio di due anni nel biberon, al posto del latte, mettevo il sugo di pomodoro, che era una delle poche cose che potevo comprare. Allora sono venuta in Italia per lavorare in un ristorante. Ma il sacrificio di aver lasciato soli i miei figli non è servito, perché i guadagni erano insufficienti. Dovevo fare qualcosa in più per risolvere la situazione e tornare al più presto da loro. Trovai a Milano una casa d’appuntamenti e iniziai a prostituirmi, convinta che dopo due mesi sarei tornata a Santo Domingo con i soldi necessari per ricominciare».
Cala un velo di silenzio, Sorayda è angosciata e il pianto le solca il viso. «Coraggio — le dico —, è tutto finito e adesso siamo qui che possiamo raccontarlo!». A fatica prosegue: «Quando facevo quel lavoro, la mia anima era triste e pregavo Dio perché volevo uscirne, ma quei soldi mi servivano. Un giorno si è presentata da me una persona violenta, che ha tentato di uccidermi. Quell’uomo mi stava strangolando e per difendermi l’ho colpito con un coltello. Avevo i segni visibili della violenza subita e avrei potuto denunciarlo, ma non l’ho fatto. Poi la polizia ha localizzato il mio telefono, sono stata fermata e, dopo tre giorni, mi hanno portata a San Vittore. Anche se la mia anima e il mio spirito erano liberi, il carcere mi ha fatto vergognare di me stessa. Ho dedicato la vita ai miei figli, faccio da madre e padre, e sono passata dall’amore per la famiglia, alla violenza e al carcere».
Le chiedo quanto tempo ha trascorso a San Vittore e come lo ha vissuto. «A San Vittore sono accadute cose inspiegabili… Quando al processo mi hanno condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione, ho creduto di morire e mi ripetevo: “Signore perché, se sono innocente, mi hai abbandonato? Tu sai la verità, perché permetti questo?”. Nonostante alcune detenute tentassero di far vacillare la mia fede (“Se tu credi così tanto in Dio, perché sei ancora qui?”), sentivo che Dio era con me. In un solo momento della mia vita ho perso la fede: quando è morto mio figlio investito davanti al cancello di casa a soli tre anni. Voglio dirti una cosa, Rossana: perdere la fede è come perdere l’anima. Dio non ha colpe per quello che ci accade, ci ama. Ero una roccia e non ho mai temuto che Dio mi avesse abbandonato. In carcere sono stata curata, accudita e per il colore della mia pelle, anziché discriminarmi, mi chiamavano “la mami”».
«Sorayda — le dico —, vedo i tuoi occhi brillare, cosa è successo poi? Prima accennavi a “a cose impiegabili”».
«Sì, infatti. Direi “quasi miracolose”! Nonostante con il mio avvocato avessimo appellato la sentenza… misteriosamente, gli educatori mi hanno inserito nel gruppo delle detenute con condanna definitiva e ho potuto lavorare, affiancare le donne bisognose di altri reparti, partecipare al progetto del teatro e al progetto del Laboratorio di Ostie, grazie al quale sono anche andata a Roma e ho incontrato il Papa».
«Il tuo racconto, Sorayda, è incredibile… Com’è stato il tuo incontro col Santo Padre?». «Il momento dell’incontro col Papa è stato bellissimo. Lo so che il Papa è un uomo come noi, ma è stato scelto da Dio per guidare la gente. È stato emozionante potergli stringere la mano e poter ascoltare le sue parole di conforto. Dio ha risposto alle mie preghiere e, nonostante la tristezza del carcere, ha fatto accadere cose inattese. Mi ha restituito tutto il bene che ho donato ai miei figli e alle detenute in carcere. Lo so che anche quel tempo in carcere è stato pianificato da Lui, l’unico che ha l’ultima parola».
Sorayda, dopo un anno e 4 mesi di reclusione, è stata assolta. Oggi è una donna finalmente libera, è una madre felice e ha una casa bella ed accogliente. I colori del cielo e del mare predominano nella cucina e trasmettono una chiara idea di futuro. Suo figlio di 19 anni l’ha raggiunta in Italia e vive con lei. Ci salutiamo e ci abbracciamo con la speranza di rivederci presto e condividere ancora tappe, solo positive, della sua storia.
di Rossana Ruggiero