· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

ProMemoria
Ritratto inedito della suora degli anni di piombo

Teresilla,
il cuore dentro

 Teresilla,  DCM-005
06 maggio 2023

L’ho frequentata assiduamente per vent’anni, ma non ho mai saputo che età avesse. Del resto il tempo delle suore, all’epoca intabarrate con qualunque clima e il volto sempre incorniciato da una fasciatura che pare un sigillo, sembra perennemente sospeso. Un mistero. Né gliel’ho mai chiesto, perché con Teresilla era meglio evitare discorsi inutili.

È stata una persona pratica e concreta. Burbera, ma mai scortese; semplicemente essenziale. E comunque sorridente. Ecco, forse anche questo contribuiva a mascherarne l’età: il sorriso spesso sornione, a volte disincantato, oppure utile a celare qualche amarezza. Derivante dalla fiducia tradita da qualcuno che aveva aiutato, o da sospetti dietrologici che la volevano al centro di oscure e inconfessabili trattative fra i terroristi e lo Stato.

Ne soffriva, si interrogava (fino a un certo punto: un limite, ma forse anche un pregio), ma non si affannava né si lasciava condizionare. Perché era disinteressata. E che altro può essere una donna che prende i voti e poi dedica la propria vita ai malati e ai carcerati, se non disinteressata?

Dell’assistenza all’interno degli ospedali ho saputo sempre poco, se non quando la cercavo in ospedale – mentre era di turno – perché non c’era altro modo di rintracciarla, e chi rispondeva al telefono appoggiava la cornetta e poi gridava per chiamarla: «Teresì!!!». Del volontariato nelle prigioni, invece, di più. Perché ha fatto da tramite per tanti detenuti, con le loro storie, le loro esigenze, le loro miserie e le loro ricchezze. Materiale umano prezioso, da qualunque lato lo si voglia prendere e raccontare. Ma da maneggiare con cura. Come faceva lei.

Teresilla è salita agli onori delle cronache per essere “la suora degli anni di piombo”, amica di terroristi pentiti, dissociati o irriducibili di ogni colore, ed è un’immagine riduttiva. Perché lo è stata anche di tanti reclusi “normali”; banditi e criminali che nulla avevano a che fare con la lotta armata, qualcuno anche famoso ma molti anonimi e sconosciuti ai più. Vite bruciate che lei ha cercato di riaccendere per tornare a far ardere qualcosa di buono. Di tutti loro aveva saputo conquistare la fiducia, ma per i reduci della rivoluzione fallita è stata un ponte per riallacciare un dialogo con il mondo esterno, la società che volevano combattere o abbattere. Le leggi italiane hanno concesso loro di essere riaccolti nel contesto che essi avevano rinnegato, rifiutato e combattuto, e lei li ha instradati e e accompagnati in questo cammino. Per alcuni breve e agevole, per altri più lungo e accidentato, per altri ancora interrotto; ma per nessuno Teresilla ha chiesto qualcosa in cambio o s’è rammaricata perché a un certo punto hanno preso in un’altra direzione. Ne ha visti alcuni allontanarsi con la stessa rapidità con cui le si erano avvicinati, senza che ciò mutasse di una virgola il suo atteggiamento; perché lei entrava in carcere (e continuava ad avere rapporti fuori, una volta usciti) per dare, non per ricevere. E quello che riceveva, bello o brutto che fosse, non influiva su quello che dava e avrebbe continuato a dare.

Può essere che qualcuno l’abbia utilizzata o strumentalizzata, sia tra i detenuti (o ex detenuti), sia tra gli interlocutori a cui li aveva avvicinati. E lei s’è lasciata utilizzare o strumentalizzare. Per generosità, probabilmente per ingenuità, forse per rischio calcolato; ma – credo io – non per complicità. Troppe volte l’ho vista allargare le braccia e, per l’appunto, sfoderare un mezzo sorriso davanti a una sconfitta: che fosse l’evasione di uno aiutato a uscire con un permesso, un nuovo reato (anche grave) commesso da un graziato per il quale aveva interceduto, o qualche accusa lanciata da chi in precedenza l’aveva sollecitata a fare ciò di cui l’accusava.

Le delusioni – anche cocenti e in ogni ambiente, compreso quello religioso a lei più vicino – le aveva messe nel conto, come fossero un prezzo da pagare per fare ciò che considerava la sua missione: aiutare le persone a essere ciò che desideravano, e a riconquistare una vita che valesse la pena vivere. Dentro e fuori le mura di una galera.

Un’esistenza spesa al servizio degli altri, in maniera quasi testarda, senza mai fermarsi troppo a pensare, perché aveva fretta di agire. Spezzata proprio per una sua mossa improvvisa e probabilmente avventata, durante una processione notturna, vestita di nero e lungo una strada buia…

Come mi disse un ex terrorista che le è stato amico dietro le sbarre e poi da uomo libero, commentando la sua morte avvenuta da poche ore: “Lo sai com’era fatta, no?”.

di Giovanni Bianconi
Giornalista «Corriere della sera»


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