· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Una missionaria racconta gli incontri con donne carcerate

Quelle guerrigliere
parlavano d’amore

 Quelle guerrigliere   parlavano d’amore  DCM-005
06 maggio 2023

Se posso raccontare queste storie devo ringraziare Gloria, che ho conosciuta per caso a Madrid, dove stavo studiando quella che adesso è conosciuta come laurea magistrale in Scienze del Servizio Sociale. Mi colpì un volantino affisso in una bacheca della facoltà: un carcere stava cercando volontarie che visitassero periodicamente le detenute straniere che ospitava. Molte di loro avevano lunghe sentenze ed erano completamente isolate da parenti e amici. Detti la mia disponibilità sia per la curiosità di vedere una prigione da dentro, sia perché stavo sperimentando per la prima volta la vita all’estero e - in qualche modo - pensavo avessimo qualcosa in comune. La prima volta che ci incontrammo eravamo entrambe molto imbarazzate. Parlammo dei nostri rispettivi Paesi, del cibo di cui sentivamo la mancanza, di quanto fosse stato difficile per me imparare decentemente lo spagnolo e per come fosse complicato per lei capire la grammatica e il vocabolario usati a Madrid, nonostante lo spagnolo fosse la sua lingua materna. Io feci finta di non accorgermi del vetro che ci divideva, lei non menzionò mai di essere in prigione. Una volta rotto il ghiaccio riuscimmo anche a farci un paio di risate, e prima di andarmene le chiesi se volesse che tornassi.

Con sua grande sorpresa tornai un paio di settimane dopo. Lo feci perché dietro quel vetro avevo inaspettatamente scoperto che “detenuta” non è un sostantivo, ma un aggettivo: non definisce l’essenza della persona, ma una situazione che questa vive. Gloria, come me, è creata a immagine e somiglianza di Dio e da Dio amata incondizionatamente, indipendentemente dal perché avesse cominciato da poco a scontare una sentenza di 15 anni. Ci vedemmo per più di un anno, tutto il tempo che rimasi in Spagna. Mi parlò del perché si trovava lì, dei suoi progetti per quando sarebbe tornata al suo Paese, ci raccontammo le nostre infanzie, e guardammo insieme foto delle nostre famiglie. Per il suo compleanno ottenni il permesso di portarle una piantina in un vaso, perché mi aveva detto che in carcere non c’era niente di vivo. Ancora oggi penso a lei tutte le volte che mi trovo in uno spazio aperto o in spiaggia e le dedico quello che vedo, perché la mancanza di orizzonti in prigione la faceva soffrire. Non parlammo mai di fede: sapeva che sono una suora, ma quasi subito nella nostra relazione lei si definì agnostica, ma spero si sia sentita - in qualche modo - infinitamente amata. Anni dopo vivevo in uno slum di Lima. Marina, una giornalista amica di un’amica italiana, veniva in Perù per turismo e desiderava visitare una donna che stava scontando un ergastolo a causa della sua appartenenza a Túpac Amaru, un gruppo guerrigliero marxista-leninista che per una ventina d’anni ha seminato il terrore nel paese. Una volta ottenuti tutti i permessi necessari, l’accompagnai come interprete nel carcere di massima sicurezza. L’agente ci accompagnò a una piccola palazzina isolata, chiuse a chiave il cancello principale dietro di noi e se ne andò dicendo che sarebbe tornata a prenderci tra tre ore. Mi guardai intorno perplessa e confusa: nel grande atrio c’erano molte donne che chiacchieravano tra di loro, mentre due donne scendevano le scale verso di noi sorridendo e dandoci il benvenuto. Mi ci volle qualche secondo per capire che una delle due era la signora che stavamo cercando, che le altre donne erano detenute e che nell’edificio non c’era nessun personale penitenziario.

Ebbi paura, ma non lo dissi a Marina: Túpac Amaru era conosciuto per sequestrare cittadini stranieri per far parlare di sé all’estero. Fu invece uno dei pomeriggi più significativi della mia vita. Ci portarono al piano di sopra, dove una quindicina di donne ci abbracciarono e ci offrirono cibo che avevano messo da parte per noi dalle loro razioni. Parlavano tutte allo stesso tempo, contente di avere una visita. Ci fecero sedere in una cella e siccome non c’era posto per tutte, molte si sedettero per terra in cella e in corridoio. Erano tutte combattenti di Túpac Amaru, a cui si erano unite giovanissime. Parlammo molto e piangemmo insieme: dei loro bambini affidati a nonni e zii che sarebbero diventati adulti senza di loro; dei loro compagni uccisi o all’ergastolo, che non avrebbero mai più rivisto; delle vite che avevano tolto «perché era necessario». Chiesi se, con il senno di poi, ne era valsa la pena e se - avendone la possibilità - avrebbero rifatto la stessa scelta. Mi sorprese che mi rispondessero convinte di sì: gli ideali che le aveva portate a unirsi a Túpac Amaru erano ancora validi e assoluti. Erano genuinamente curiose del fatto che io ero una suora e mi chiesero cosa mi avesse portato a questa scelta. Feci uno sforzo tremendo per scegliere le parole giuste per raccontare l’essenza di ciò che sono a donne convintamente atee. Non dimenticherò mai quello che una di loro disse quando finii: «vedi, in fondo non siamo così differenti: sia le nostre che le tue scelte sono guidate dall’amore». È evidente che intendiamo l’amore in modo diverso, ma l’esperienza di quel pomeriggio ci ha permesso di “vederci”, “accoglierci” reciprocamente come esseri umani nonostante punti di partenza opposti.

Da diversi anni vivo negli Usa , a Baltimore. Tra altre cose, facilito in carcere con Alternatives to Violence Project workshops di diversi giorni su temi di non violenza e risoluzione di conflitti. Qualche mese fa, insieme a delle facilitatrici che sono recluse abbiamo preparato e condotto un workshop sulla sensibilizzazione al trauma e potenziamento della resilienza per la sezione femminile del carcere di massima sicurezza della mia città. I diversi incontri di preparazione con le facilitatrici “interne” hanno favorito tra di noi una relazione alla pari, promuovendo una fiducia reciproca e una condivisione profonda che vanno ben al di là del collaborare insieme in un progetto. Il workshop si è poi svolto durante l’arco di due giorni. Nonostante la partecipazione fosse volontaria, all’inizio tra le iscritte c’era imbarazzo e riserbo: una delle regole basiche di sopravvivenza in prigione e di mostrarsi sempre forti e “dure”; mostrarsi vulnerabili, raccontare di sé, esprimere sentimenti, sogni, e paure è interpretato come segno di debolezza. Poco alla volta si è rotto il ghiaccio e durante il workshop sono state condivise storie molto personali e sono state offerte e adottate strategie personali e comunitarie per rafforzare la propria resilienza e autostima.

Suor Helen Prejan, la suora che ha lavorato tutta la sua vita per l’abolizione della pena di morte, ci ricorda spesso che tutti noi valiamo più della cosa peggiore che abbiamo fatto nella nostra vita.

Mi colpisce sempre e considero un dono che mi è offerto l’intimità che si crea tra persone quando è riconosciuta nell’altro con apertura e senza giudizio quella che io chiamo “la scintilla di Dio”. Credo che la mia missione di donna consacrata sia quella di aiutare chi incontro a riconoscere e accogliere la propria dignità inalienabile. Non importa che adottino un linguaggio di fede: Dio le ama infinitamente e incondizionatamente da sempre.

di Ilaria Buonriposi
Suora missionaria comboniana, assistente sociale con particolare attenzione alla giustizia riparativa e al rafforzamento delle abilità di resilienza


#sistersproject