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DONNE CHIESA MONDO

L’Intervista
Parla suor Anne Lecu, medico nel più grande carcere europeo

I figli lontani la vera pena

 I figli lontani la vera pena  DCM-005
06 maggio 2023

Religiosa domenicana, autrice di numerose libri, Anne Lécu lavora come medico nel più grande carcere d’Europa, Fleury-Mérogis, a sud di Parigi. Ci racconta qui la sua esperienza con donne spesso ferite dalla vita.

Qual è il maggiore motivo di sofferenza delle donne in carcere?

Per le donne in generale, e le straniere in particolare, la difficoltà più grande è la separazione dai figli. Nei centri di detenzione dell’ Île de France c’è una forte presenza di donne straniere, provenienti dal Brasile, Venezuela, Guyana e altri Paesi dell’Africa occidentale e centrale, arrestate negli aeroporti parigini. A Fleury-Mérogis sono presenti detenute di quaranta nazionalità. In genere vengono condannate per traffico di stupefacenti, perché hanno aiutato a far passare la droga da un Paese all’altro. Sono chiamate i muli. Spesso partono lasciando i figli a qualche vicina per una settimana … e poi vengono detenute per un anno. Sono situazioni complicate perché sanno che anche la loro vicina è povera e quindi si preoccupano a ragione per i loro figli.

Ma che cosa possono fare?

A volte cercano di lavorare in carcere. Possono così guadagnare da cento ai centocinquanta euro al mese. Ma hanno bisogno di una parte di quella somma per vivere in prigione, comprare carta igienica, dentifricio, pagare il telefono e la multa doganale, perché altrimenti non possono beneficiare della libertà condizionale. Se riescono a mettere da parte 50 euro al mese per inviarlo ai figli è già tanto. Può sembrare poco in Europa, ma in alcuni Paesi veramente poveri 50 euro permettono di mantenere i nonni materni, una sorella con un figlio a carico, nella vita quotidiana. Quando riescono a chiamare, avere notizie e inviare magari un aiuto economico, si sentono un po’ rassicurate. A volte se la sbrigano dicendo che hanno trovato un lavoro in Francia, per poi dire o meno la verità una volta tornate al proprio Paese. Infine ci sono situazioni drammatiche in cui non sanno neppure dove stanno i loro figli.

Ci sono anche le donne rientrate da zone di guerra…

Effettivamente il loro numero è aumentato dal 2016. La giustizia ha preso coscienza che queste donne, partite volontariamente nella maggior parte dei casi, possono essere pericolose, perché non sono sempre vittime della propaganda dei terroristi, a volte ne sono anche artefici. Quando tornano da quelle zone vengono fermate il tempo necessario per consentire ai servizi d’intelligence, alla polizia e ai magistrati d’indagare sulla loro situazione. Anche queste donne vengono separate dai figli dall’oggi al domani, dopo aver vissuto nei campi con loro. I figli vengono dati in affido a una famiglia e possono rivedere la propria madre solo a conclusione di una lunga indagine. In seguito, quando si creano le condizioni, il ricongiungimento avviene in parlatori video e audio sorvegliati.

E per le donne incinte?

C’è una zona nursery con undici posti per le future madri a partire dal sesto mese di gravidanza. Queste possono restare nella zona nursery fino al compimento del 18° mese del figlio, il che, con le riduzioni di pena, rende estremamente rari i casi in cui il bambino esce prima della madre per tornare nella sua famiglia o per essere collocato in una famiglia affidataria. Questo accade però nei casi di terrorismo in cui le condanne sono lunghe. Da un lato non è auspicabile che i figli rimangano in carcere con la madre, ma dall’altro è indubbio che per loro è meglio restare con la madre nei primi mesi di vita. Qual è la soluzione giusta? Non saprei dirlo. In ogni caso ha un peso enorme sullo stress mentale delle donne detenute.

Di quali altri mali parlano le detenute?

Un gran numero di motivi di consultazione è legato a problemi di pelle, secchezza, prurito, acne o disfunzioni del ciclo mestruale. Molte donne inoltre ingrassano. Sono talmente angosciate che sgranocchiano davanti al televisore con la sensazione di non star mangiando niente. A volte mi domando se ciò è legato al fatto che per trasportare la droga molte sono state trasformate in borse umane. E poi c’è il problema del senso di colpa. Alcune donne che hanno ucciso il marito che le maltrattava sono tanto più intrise di sensi di colpa man mano che migliorano, si truccano di nuovo. Se la loro vita migliora in carcere, dimostra quanto la loro esistenza fuori fosse disastrosa.

L’intimità viene calpestata in carcere?

Le detenute devono spogliarsi per essere perquisite prima di uscire dal carcere per andare dal giudice, all’ospedale, nel settore maschile per fare una radiografia…. È un atto di estrema violenza per donne che sono già state vittime di violenza sessuale. Quando si fa l’anamnesi alle detenute per conoscere la loro storia clinica, ci si imbatte subito in storie di violenza. Gran parte ha subito violenze sessuali durante l’infanzia e l’adolescenza. È un elemento non quantificato per ora ma molto ricorrente. Quelle donne hanno vissuto rotture di cui a volte parlano spontaneamente. Io non faccio mai domande al di là del mio ambito di competenza per non abusare del mio potere di medico. Non sono psicologa, né cappellano e, in un universo chiuso come quello carcerario, è importante che ognuno resti al proprio posto per rispettare la libertà delle persone. Io non le esamino neppure il primo giorno di consultazione per rispettare la loro intimità.

di Marie-Lucile Kubacki
Giornalista per «La vie» a Roma

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