· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Cristianesimo, Chiesa e reclusione femminile
E le prime prigioni dotate di una dignitas

E fu il Carcere novo

 E fu   il Carcere novo  DCM-005
06 maggio 2023

«Fui in prigione e veniste a trovarmi». Le parole del Vangelo di Matteo (Mt. 25.36) sintetizzano il senso di una missione di lunga durata. Con altalenante efficacia, ma con determinazione, la Chiesa ha portato avanti un’azione votata alla mitezza e alla misericordia, ben consapevole del fatto che i carceres fossero, sin dall’Antichità, luoghi terribili, dove gli imputati venivano ammassati in attesa del giudizio: vivere o morire.

Per molto tempo, infatti, si rimase lontani dall’idea di carcere come luogo di riconciliazione. A partire dall’Età Moderna, e via via sempre più, la dottrina cristiana ha provato ad associare la detenzione a quello che – per dirla con l’antropologo francese Arnold van Gennep, tra i più noti studiosi del Novecento – potremmo descrivere come un rito di passaggio: un’esperienza di purificazione vissuta in un tempo e in un luogo di transito, dopo la quale il penitente risulta rinfrancato, anche per l’esercizio interiore di dialogo e avvicinamento a Dio, non troppo diversamente da quanto avveniva nel corso di un pellegrinaggio, da quanto si immaginava di fare nel Purgatorio, da quanto ci si faceva nel corso della vita intera.

Senza poter evitare asprezze e atrocità, dal Cinque-Seicento la Chiesa cominciò a veicolare, attraverso esempi concreti, l’immagine di prigioni dotate di una dignitas. In questo senso, nel 1655, a cavallo tra i pontificati di Innocenzo x e Alessandro vii , si completò a Roma l’edificio che già dal nome segnò una rivoluzione nel sistema detentivo. Il Carcere Novo prevedeva spazi separati per uomini e donne, locali più ampi e puliti dotati di collegamento al sistema fognario. Le recluse erano affidate alle cure delle Suore della Provvidenza e dell’Immacolata Concezione. Superando la logica dell’enclave, il carcere manteneva un legame con la società cittadina, grazie all’attività delle confraternite, tra cui quella della Pietà dei Carcerati, dell’Assunta al Gesù e di San Giovanni della Pigna. La locale arciconfraternita di San Girolamo della Carità doveva, tra le altre cose, «patrocinare le cause dei poveri pupilli e delle vedove nei tribunali, dotare le zitelle, distribuire limosine massimamente alle donne condannate». Da allora, un po’ ovunque in Europa, iniziarono a sorgere carceri costruiti sul modello romano.

Ebbe modo di lodare il Carcere Novo anche il primo riformatore del carcere inglese, il filantropo inglese John Howard, che, sulle rotte del Grand Tour, compì molti viaggi per finalità di studio. Lo trovò ben tenuto, arieggiato, attrezzato, con scrupolosa separazione di uomini e donne. Nel Settecento, complici le riflessioni del giurista Cesare Beccaria, tra i massimi esponenti dell’Illuminismo italiano, e dello stesso Howard, andò maturando, anche nei Paesi anglosassoni, la consapevolezza che non bisognasse aggiungere afflizioni oltre alla privazione della libertà. Il riferimento era all’inutilità dei lavori forzati. La repressione lasciò gradualmente spazio all’educazione. Il principio pedagogico alla base dell'esperienza detentiva diventerà un caposaldo degli Stati democratici, quando, nell'età delle grandi Rivoluzioni, si sanciranno solennemente i diritti di prima generazione, cioè quelli che attengono alla libertà individuale, di pensiero, di religione, al diritto alla vita, all’integrità fisica e a un equo processo.

Nei contesti in cui ha potuto, la Chiesa si è sempre adoperata affinché le fosse consentito di svolgere la sua missione caritativa, provvedendo ai bisogni spirituali dei detenuti ma non soltanto. Lo ha fatto prima e dopo che si rilevasse l’importanza dell’assistenza psicologica per i detenuti. Che poi, sul piano pratico, malgrado l'opera anche di persuasione nei confronti del potere laico, le carceri finissero per essere luoghi di esercizio del potere, di minaccia, di esclusione e di isolamento, questo attiene a questioni d’ordine storico e politico. Il sociologo francese Michel Foucault, in Sorvegliare e punire, ha ricordato che il carcere come lo intendiamo noi oggi ha una storia relativamente recente, distinta, in questo senso, dalla sua pre-istoria. Negli hospitales medievali, malgrado le disposizioni del Corpus iuris civilis, finivano orfani, malati, vecchi, poveri e viaggiatori; quelli del Cinque-Seicento avevano l’obiettivo di togliere i mendicanti dalle strade, come l’Ospizio Generale dei Poveri fondato da Innocenzo xii o, ancor prima, gli Hôpitals des Pauvres Enfermez, inaugurati dopo che a Parigi, nel 1611, era stato proclamato il divieto di accattonaggio. Le donne trovate a elemosinare per le strade della città venivano frustate in pubblico e rasate.

Il benedettino francese Jean Mabillon, noto per essere stato il fondatore della paleografia e della diplomatica, cioè delle scienze utili a studiare i documenti del passato, ricostruendo storicamente il binomio Chiesa-prigioni, mise l’accento sulla pratica correzionale. Mentre la giustizia secolare si preoccupa di mantenere l’ordine, quella ecclesiastica deve badare alla salvezza delle anime, ispirare la penitenza. Secondo gli antichi canonisti, infatti, la pena era comminata per riconciliare il colpevole con Dio.

Tra i nobili intenti e la dura realtà, la distanza rimaneva, il più delle volte, incolmabile. Una delle priorità del neonato Regno d’Italia fu riformare e uniformare i sistemi carcerari ereditati dagli Stati preunitari.

Il Regio Decreto sulle Case di Pena del 1862 evidenziava una peculiarità tutta femminile, che rendeva l’esperienza delle detenute diversa da quella maschile. In entrambi i casi, il sistema penale si articolava in tre organismi: case di pena per i condannati a più di due anni di detenzione, carceri giudiziarie per chi aveva subito condanne brevi, case di custodia per i minorenni. Ma, a differenza delle carceri maschili, dirette dai funzionari della Direzione delle Carceri sottoposta al Ministero dell'Interno, le case di pena erano affidate alle cure delle Suore di San Vincenzo de’ Paoli, a quelle della Provvidenza dell’Immacolata Concezione e a quelle del Buon Pastore. Le religiose che lavoravano nelle carceri dipendevano, evidentemente, dalla madre superiora, la quale formalmente aveva il compito di rendere conto al direttore del carcere.

Nel 1890, esclusi i riformatori per ragazze, gli ordini religiosi amministravano quattordici istituti tra case di pena e carceri giudiziarie italiane. Anche nelle case di pena maschili, i compiti di conservazione e mantenimento in buono stato della cappella, della farmacia, dell'infermeria, della cucina e della lavanderia erano affidati alle suore.

Per quanto già in quel contesto si garantisse ai detenuti il diritto di professare liberamente la propria religione, per esempio esentando gli ebrei da ogni forma di lavoro di sabato o durante le festività, e gli acattolici in generale dai doveri religiosi, tra cui quello di partecipare alle preghiere e alle funzioni, e persino ipotizzando, se possibile, di invitare un ministro protestante o rabbino, «onde intrattenersi in argomenti di sua religione», si era pur sempre nell'ambito di uno Stato confessionale. Ciò comportava esortare i detenuti a partecipare alle attività spirituali promosse dal cappellano.

Fu forse questa immagine ad attirare le critiche serrate di parte del mondo laico, non sempre esenti da ingenerosità. Agli albori del Novecento, in Italia due giornaliste e scrittrici, Zina Centa Tartarini e Maria Rygier, la prima educatrice e ispettrice delle carceri, la seconda impegnata nella lotta sociale e politica agli albori del Fascismo, si concentrarono sul ruolo svolto dalle suore nelle case di pena femminili italiane, partendo dall’esame di casi specifici – Roma, Perugia, Torino, ma non soltanto. Tartarini, che usava lo pseudonimo di “Rossana”, denunciò, sulla rivista «Nuova Antologia», le condizioni spesso fatiscenti delle strutture, l’assenza di scuole regolari e di biblioteche, ma soprattutto l’umiliazione inflitta a chi era costretta a indossare una cuffia colorata come indizio della gravità della pena (nera per l’ergastolo!). Sul personale religioso si soffermava l’articolo di Rygier, intitolato «Il monachesimo nelle carceri femminili» e pubblicato, nel 1909, sul settimanale Il Grido del Popolo.

La madre superiora della casa penale di Torino, finita sotto accusa, si difese limitandosi, significativamente, a sostenere che la sua casa di pena «andava benino». L’anticlericalismo di Rygier andava oltre le comprensibili premesse quando associava le preghiere e le genuflessioni al “fanatismo delle suore”. Persino la marchesa Tartarini, tuttavia, non poté esimersi dal lodare il lavoro delle suore, che facevano bene se adeguatamente preparate. Nello stesso 1909, per esempio, la commissione ispettrice del riformatorio del Buon Pastore a Roma espresse i sentimenti di più schietta ammirazione per la gestione di quell’istituto.

di Giuseppe Perta
Docente di Storia medievale, Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa