· Città del Vaticano ·

Sessant’anni fa Giovanni XXIII firmava la «Pacem in terris»
Papa Roncalli promulgò il testo dello storico documento il Giovedì santo del 1963

«In pienissima risonanza
col mio spirito»

gisotti.jpg
08 aprile 2023

«Ho poi consacrato tutto il Vespero, circa tre ore nella lettura della enciclica di Pasqua in preparazione, fattami da mgr. Pavan: “La pace fra gli uomini nell’ordine stabilito da Dio e cioè: nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”. Manoscritto di 111 pagine dattilografate. Ho letto tutto, solo, con calma e minutissimamente: e lo trovo lavoro assai bene congegnato e ben fatto. L’ultima parte poi: “Richiami Pastorali” in pienissima risonanza col mio spirito. Comincio a pregare per la efficacia di questo documento, che spero uscirà a Pasqua e sarà motivo di grande edificazione». Così Giovanni xxiii — già gravemente malato — scriveva il 7 gennaio ’63, affidando al diario un auspicio realizzatosi solo in parte.

Sì, perché se l’enciclica poi intitolata Pacem in terris e indirizzata per la prima volta anche «a tutti gli uomini di buona volontà», venne promulgata nei tempi desiderati, l’11 aprile successivo, giovedì santo — e persino firmata due giorni prima davanti alle telecamere — sessant’anni dopo deve essere ancora recepita nelle sue ferme indicazioni. Quelle delineanti il disegno di un nuovo ordine mondiale fondato sui «valori di verità, giustizia, solidarietà e libertà», e di una pace «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi», immaginata non solo come assenza di guerra, bensì come traguardo di un processo educativo, spirituale, politico, economico. Infatti non solo si continua a «far fare» guerre, e non cessano le violazioni di diritti elementari e della dignità umana, termine ricorrente più di trenta volte nell’enciclica. Non solo vengono ignorati gli appelli a diffondere una cultura della nonviolenza che invece — ricorda Papa Francesco — «praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti», ma si rivelano carta straccia pure accordi e patti sottoscritti formalmente da non pochi governi.

Insomma: una enciclica viva e incompiuta. Restando di fatto disatteso quell’impegno permanente per la pace e per quel bene comune che «costituisce la stessa ragione di essere dei poteri pubblici», raccomandato in quello che è l’ultimo dono di un grande seminatore di pace, con tante esperienze vissute tra Oriente e Occidente, anche come testimone dei due conflitti mondiali del ’900.

Pacem in terris era germinata già durante la crisi dei missili di Cuba, quando l’ottobre ’62 aveva visto Papa Roncalli — nei giorni in cui si apriva il Concilio — protagonista di un appello per la pace accolto da Kennedy e Kruscev in un mondo sull’orlo di una guerra nucleare. A immaginare un testo per dare forma a quell’impegno, sin dal novembre ’62, Pietro Pavan, un sacerdote esperto di dottrina sociale della Chiesa che tanta parte ebbe nella stesura circolata dal gennaio successivo fra gli esperti, e rimasta quasi invariata nella sua forza profetica se non in alcuni punti allora rimossi (ad esempio l’obiezione di coscienza), ma ripristinati di lì a poco dalla forza di alcuni profeti e dall’impegno di piccole comunità.

In ogni caso, punto principale dell’enciclica quello in cui si ritiene irrazionale («alienum a ratione») — dopo l’avvento del nucleare — la stessa idea di risolvere le controversie col ricorso alle armi. Non senza indicare prospettive concernenti la costruzione della pace, e di un «disarmo integrale» che investe «anche gli spiriti».

E se a lungo la Chiesa aveva insegnato che la guerra era ammessa come legittima difesa, ecco Pacem in terris affermare che lo squilibrio fra mezzi a disposizione (armi atomiche) e finalità (ripristino di diritti violati) rende impossibile continuare su questa linea. Insomma: senza farne il nome: basta con la «guerra giusta». E — questo — detto con parole aderenti al Vangelo, fiduciose nei percorsi attenti alla promozione dei diritti umani, al riparo dagli urti delle ideologie responsabili della cultura dello scarto con le forme più diverse di sfruttamento ed emarginazione.

Ma non è tutto. Perché Pacem in terris resta pure l’enciclica che invita a «mai confondere l’errore con l’errante»; a riconoscere «gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono» quale occasione «per scoprire la verità e renderle omaggio». E che dichiara «non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche».

Pur se originati o ispirati da esse destinate a restare sempre le stesse, i movimenti — continua l’enciclica che riconcilia Chiesa e democrazia, dottrina sociale e diritti umani — «non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi». Leit motiv che attraversa in filigrana tutto il testo rimane, a ben vedere, l’invito a prendere atto dei «segni dei tempi», i modi nei quali la Storia muove pagine di Vangelo. Scrutarli, interrogarsi sul loro significato, non è responsabilità solo del Papa, ma di ogni donna o uomo di buona volontà chiamato a dare il suo contributo per far cessare le carneficine in corso, e, da qui in poi, anche a tenere sempre aperti quei canali dove — fra realismo e utopia — trova spazio la speranza.

E dove volere la pace non può essere solo non volere la guerra.

di Marco Roncalli


Un’eredità raccolta dai successori


Paolo VI
— La pace, questo è il principio della nuova civiltà, ricordiamolo bene; non deve essere la pace una pausa contingente della storia, ma stabile fermento della umana società; non una situazione parziale in un mondo orientato ormai verso l’unità, ma universale; non una condizione pietrificata in uno stato, che lo sviluppo delle cose e degli uomini denuncia intollerabile, ma dinamica e sollecita sempre a tutelare, sopra ogni altro, il primato dell’uomo, considerato nel complesso globale del suo essere, dei suoi diritti, dei suoi doveri, dei superiori destini.

Quell’Enciclica ha vigorosamente richiamato ogni uomo di buona volontà a meditare uno dei doveri più gravi dell’individuo nella società contemporanea: quello di diventare sempre più cosciente della sua tremenda responsabilità e del suo irrinunziabile impegno di fronte a ciascun altro uomo nel collaborare alla costruzione e alla difesa della pace.

Non possiamo non notare che la pace è un bene di cui il mondo ha ancora un estremo bisogno, e che le offese alla pace continuano a moltiplicarsi un poco dappertutto, mediante l’ingiustizia, la violenza e l’oppressione.

Il contenuto sempre valido del messaggio della Pacem in terris ci offre in questo decimo anniversario un conforto e un nuovo slancio a operare infaticabilmente per costruire la pace nel mondo. Vorremmo veramente augurarci che esso continui ancora a trovare eco e a suscitare ispirazione, fiducia e impegno in tutti gli uomini di buona volontà, rendendo tutti, singoli e comunità, veramente coscienti che «la pace è possibile», — come s’è detto quest’anno per la «giornata della pace» —, e dunque essa è doverosa!

(Udienza generale, 11 aprile 1973)

Giovanni Paolo II — Il problema della pace rettamente intesa, non può prescindere da questioni legate ai principi morali. In altre parole, emerge anche da questa angolatura la consapevolezza che la questione della pace non può essere separata da quella della dignità e dei diritti umani. Proprio questa è una delle perenni verità insegnate dalla Pacem in terris, e noi faremmo bene a ricordarla e a meditarla in questo quarantesimo anniversario.

Non è forse questo il tempo nel quale tutti devono collaborare alla costituzione di una nuova organizzazione dell’intera famiglia umana, per assicurare la pace e l’armonia tra i popoli, ed insieme promuovere il loro progresso integrale? 

C’è un legame inscindibile tra l’impegno per la pace e il rispetto della verità. L’onestà nel dare informazioni, l’equità dei sistemi giuridici, la trasparenza delle procedure democratiche danno ai cittadini quel senso di sicurezza, quella disponibilità a comporre le controversie con mezzi pacifici e quella volontà di intesa leale e costruttiva che costituiscono le vere premesse di una pace durevole. Gli incontri politici a livello nazionale e internazionale servono la causa della pace solo se l’assunzione comune degli impegni è poi rispettata da ogni parte. In caso contrario, questi incontri rischiano di diventare irrilevanti e inutili, ed il risultato è che la gente è tentata di credere sempre meno all’utilità del dialogo e di confidare invece nell’uso della forza come via per risolvere le controversie. Le ripercussioni negative, che sul processo di pace hanno gli impegni presi e poi non rispettati, devono indurre i Capi di Stato e di Governo a ponderare con grande senso di responsabilità ogni loro decisione.

(Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2003)

Benedetto XVI —La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. Comporta principalmente, come scrisse il beato Giovanni xxiii nell’Enciclica Pacem in terris, di cui tra pochi mesi ricorrerà il cinquantesimo anniversario, la costruzione di una convivenza fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore e sulla giustizia. La negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace. Senza la verità sull’uomo, iscritta dal Creatore nel suo cuore, la libertà e l’amore sviliscono, la giustizia perde il fondamento del suo esercizio.

La realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana. Essa si struttura, come ha insegnato l’Enciclica Pacem in terris, mediante relazioni interpersonali ed istituzioni sorrette ed animate da un «noi» comunitario, implicante un ordine morale, interno ed esterno, ove si riconoscono sinceramente, secondo verità e giustizia, i reciproci diritti e i vicendevoli doveri.

(Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2013)

Francesco — I semi di pace gettati dal Beato Giovanni xxiii hanno portato frutti. Eppure, nonostante siano caduti muri e barriere, il mondo continua ad avere bisogno di pace e il richiamo della Pacem in terris rimane fortemente attuale.

Ma qual è il fondamento della costruzione della pace? La Pacem in terris lo vuole ricordare a tutti: esso consiste nell’origine divina dell’uomo, della società e dell’autorità stessa, che impegna i singoli, le famiglie, i vari gruppi sociali e gli Stati a vivere rapporti di giustizia e solidarietà. È compito allora di tutti gli uomini costruire la pace, sull’esempio di Gesù Cristo, attraverso queste due strade: promuovere e praticare la giustizia, con verità e amore; contribuire, ognuno secondo le sue possibilità, allo sviluppo umano integrale, secondo la logica della solidarietà.

Guardando alla nostra realtà attuale, mi chiedo se abbiamo compreso questa lezione della Pacem in terris. Mi chiedo se le parole giustizia e solidarietà sono solo nel nostro dizionario o tutti operiamo perché divengano realtà. L’Enciclica del Beato Giovanni xxiii ci ricorda chiaramente che non ci può essere vera pace e armonia se non lavoriamo per una società più giusta e solidale, se non superiamo egoismi, individualismi, interessi di gruppo e questo a tutti i livelli.

(Discorso ai partecipanti a un incontro per il  50° anniversario dell’enciclica, 3 ottobre 2013)