
Non avvertiamo spesso, sempre più spesso, la vita in città come un faticoso sforzo che ci lascia col fiato corto? L’aria greve che respiriamo non ci appesantisce fino all’asfissia? Cosa rende la vita così difficilmente sopportabile nelle grandi metropoli? L’implacabile parabola dell’urbanizzazione che si espande senza tregua sull’intero pianeta conferma la città lo spazio-simbolo del paradigma moderno. Nella sua spasmodica forma attuale la città cristallizza la peculiare configurazione della modernità nella sua versione esasperata e ricalcitrante, ipermodernità. Lungi da un suo crepuscolare superamento la modernità porta a saturazione il proprio percorso nella città del xxi secolo.
Muovendo dall’analisi dell’America premoderna, il lucido sguardo di un autore come Rodolfo Kusch (America profonda) aveva già esplorato criticamente nella città le radici del progetto moderno. Attraverso lo spazio-simbolo della città il pensiero di Kusch delineava le caratteristiche fondamentali del modello antropologico che regge l’assetto sociopolitico del paradigma occidentale. Separando la specie umana da un ancestrale passato di paura e sgomento originali, la città promette all’individuo un rifugio dall’intemperie esistenziale. Nella sua aggressiva logica sicuritaria l’urbanizzazione compulsiva del mondo si presenta come garanzia di padronanza e dominio. «La paura del mondo è stata sostituita da un altro mondo», diceva Rodolfo Kusch, per chi la città rappresentava una sorta di seconda natura. La paura atroce del divenire — quel primigenio terrore di vivere — spinge la città a riconfigurare il mondo saturandolo di oggetti e di macchine, e attraverso la tecnocrazia compensa, con una nuova forma di mitologia collettiva, quello che un tempo era custodito nell’esperienza religiosa. La geografia urbana appare così lo spazio dove l’individuo — immunizzato dalla sua costitutiva e scuotente condizione di fragilità — può dedicarsi al suo ossessivo progetto di essere qualcuno. Un modo per staccare il suo stare al mondo predominando nella competitività e la concorrenza spietata.
Di questo pensiero dell’America profonda si nutre la riflessione che l’arcivescovo di Buenos Aires, l’allora cardinale Bergoglio, rivolgeva già all’inizio del nuovo millennio alle comunità educative della grande metropoli sudamericana, chiamandole ad un deciso impegno per fare della scuola un luogo di accoglienza cordiale. Vocazione educativa alla quale la scuola deve rispondere obbligandosi ad una profonda conversione evangelica. «In mezzo alla grande città con le sue macchine, le sue luci e la sua estesa orfanezza» — diceva Bergoglio — l’educatore è chiamato al ministero dell’accoglienza cordiale. La risposta che la città attende con urgenza e sordo clamore è «innanzitutto risposta ad un’esperienza — sosteneva l’arcivescovo di Buenos Aires —; l’esperienza umana, etica, di percepire il dolore e la necessità del fratello».
Il vissuto più caratterizzante della vita in città è per Bergoglio l’esperienza di orfanezza. Declinata in triplice maniera come esperienza di discontinuità, sradicamento e caduta delle certezze basilari. «Dobbiamo sviluppare e potenziare la nostra capacità di accoglienza cordiale perché molti di quelli che arrivano alle nostre scuole lo fanno in una profonda situazione di orfanezza». Ma in che senso viviamo in una situazione di orfanezza?
La riflessione di Bergoglio muove dalla testimonianza di una generazione di giovani che si riconosce estranea e avulsa ai discorsi di futuro. Nata nel deserto post-ideologico dell’ipermodernità, la generazione del terzo millennio fa i conti con un tempo segnato dalla frammentazione e privo di memoria. Desolazione di un tempo vissuto nell’arida esperienza dove non è possibile seminare né far cresce alcunché. Questa prima caratteristica dell’orfanezza urbana denota un’esperienza di discontinuità tra generazioni diverse cui è sempre più difficile il dialogo fatto della condivisione di domande, ideali, inquietudini, aspettative. L’edonismo consumistico tipico del sistema-città occidentale sembra aver inaridito per sempre il terreno del comune, inabissando la condizione umana nel più efferato individualismo.
D’altro canto, l’orfanezza si manifesta — secondo Bergoglio — come esperienza di sradicamento, dove la perdita o assenza di vincoli in città corrode il tempo e disgrega il tessuto sociopolitico che costituisce un popolo. L’intreccio spazio-temporale e spirituale-esistenziale dello sradicamento si cristallizza nella geografia urbana, fagocitata con impietosa accelerazione dall’arrogante presenza dei non-luoghi: «spazi vuoti sottomessi esclusivamente a logiche strumentali, e privi di simboli e riferimenti che contribuiscano alla costituzione di identità comunitarie». I non-luoghi delle metropoli urbane sono gli spazi dove l’individuo ha l’opportunità di essere qualcuno, contro-gli-altri, in feroce regime concorrenziale. La città ipermoderna si presenta come lo spazio saturo di non-luoghi destinati a impedire di stare-con gli altri.
Cristallizzazione del declino delle grandi narrazioni sulla libertà, l’eguaglianza e la fraternità, la città ipermoderna testimonia lo scettico e gelido disincanto rispetto alle possibilità del pensiero di dare ragione della speranza. La speranza non abita la ragione ipermoderna, né abita in città. Adagiata sulla frivola fugacità dell’immagine e dell’informazione, la cultura urbana appare rinunciataria e disfattista, ripiegata quasi esclusivamente sul compulsivo godimento consumistico di merci. La città occidentale, nel paradigma temporale del h24/7, vive la durata permanente del culto della merce garantita dal culto di ciò che non dura.
L’invito di Bergoglio ad abbeverare nel pozzo della dimensione sapienziale richiama il pensiero dell’America profonda di Kusch, lì dove il ciclo del pane — che traduce quella condizione profonda del mero stare qui — è l’esperienza altra del sistema-città. Stando sempre al di sotto del ciclo del mercante che caratterizza la città, il sapienziale ciclo del pane può riscattarci dalla desolante condizione di orfanezza urbana.
di Diego Flores