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Storie di risurrezione Saper chiedere aiuto per curare la dipendenza da eroina e ricostruire la propria vita di donna e di madre

Le colonne nuove della casa di mio figlio

 Le   colonne  nuove  della casa di mio figlio   ODS-009
01 aprile 2023

Chiamatemi Demetra, anche se non è il mio vero nome. Preferisco non dirlo per proteggere mio figlio. Ho 22 anni e sono nata a Taranto. Nonostante se ne parli solo per l’acciaieria, sono molto legata alla mia città, stupenda e fiera, soprattutto per alcuni scorci del borgo antico. Col tempo ho iniziato a fare delle analogie tra la mia condizione e quella della mia città: chi vive a Taranto subisce, direttamente o indirettamente, le conseguenze di un fumo dall’odore metallico, che riempie anima e polmoni.

«Decido di allungare un po’ il mio tragitto e fare un giro nella città vecchia, addentrandomi nei vicoletti stretti di un centro storico che un tempo doveva essere bellissimo, mentre ora è la Silent Hill dei giorni miei: le pareti dei palazzi antichi sono completamente mangiate; i soffitti crollati lasciano intravedere all’interno delle abitazioni stupendi ricami di aracne. Le enormi crepe fungono da fioriere per la muffa e nelle strutture abbandonate aleggiano Abbandono e Decadenza, due vecchi amici che si tengono per mano ballando un valzer fra le rovine di una città fantasma, unici abitanti oltre ratti e colombi. Mi intrufolo in una struttura abbandonata: i luoghi fatiscenti mi fanno sentire a mio agio, sono più sinceri dei centri città, belli fuori e marci dentro. Luoghi tirati su a cartongesso ed ipocrisia. Il soffitto crollato in un angolo permette alla luce di attraversarne la voragine, scendendo obliqua all’interno della struttura e dissolvendosi nel buio delle macerie raggruppate al lato. Qualche altro masso è rotolato un po’ più in fondo ed io mi siedo su uno di questi, al fianco di due colonne che reggono il nulla, come me che da tempo non sono in grado nemmeno di reggere la mia vita; le pareti mangiate dall’umido e dalla muffa, orribilmente imbrattate; il pavimento disconnesso e completamente assente; l’aria pesante col suo tanfo di urina di gatto e la polvere che svolazza ovunque e rende difficile respirare. Mi fermo a pensare a quanto l’uomo sia stupido: non riesce a costruire, a conservare, ma solo a distruggere o abbandonare. Quel palazzo è come me. Sono un tutt’uno con quelle rovine».

Scrivevo questo anni fa, quando la mia vita si basava quasi solamente sull’utilizzo dell’eroina: una busta di polvere in tasca dove annegare i rimpianti. Marcivo come le case abbandonate, mangiate dal tempo in cui andavo per fumarla. Forse per questo sentivo di appartenere a quei luoghi.

Non vi racconterò come ci sono entrata nella dipendenza, ci potrebbero essere mille motivi e dovrei dilungarmi sul mio passato. Vi dirò però a cosa l’eroina mi ha portata e cosa stava per farmi perdere. E, soprattutto, come ne sono uscita e come ogni giorno continuo ancora a ricostruire, perché, anche se le macerie di questa casa abbandonata sono alle spalle, ci sono cose che sono irrecuperabili.

Il 27 gennaio del 2020 nasceva mio figlio: Cosimo, come mio padre; Eros, come Cupido. Dato che la sostanza può provocare amenorrea, per i primi mesi non avevo nemmeno idea di essere incinta. Vivevo con il padre di mio figlio a casa dei suoi genitori: prima casa e prima “famiglia”, dopo alcuni anni vissuti per strada a fare da spola tra abitazioni di prestanome e appartamenti di spacciatori per i quali facevo da corriere.

Ho cercato la morte per anni e, ad oggi, posso dire che ha fortunatamente rifiutato tutte le mie richieste. La mia condizione di fragilità, a posteriori, posso affermare sia stato il principale motivo per cui legai col padre di mio figlio. Ovviamente ci drogavamo insieme. Lui era molto possessivo e la mia vita si svolgeva praticamente nella stanza da letto, dalla quale non potevo uscire senza di lui, a meno che non fossi pronta a subirne le conseguenze. Passavamo ore e giornate a fumare o a litigare, non facevamo altro. Ci si dimenticava anche di mangiare: c’era solo l’eroina e, talvolta, il crack. Quando, a seguito di un’ecografia, capii di essere incinta, mi rivolsi al Serd . Non fui in grado di seguire il programma, tantomeno di separarmi dal mio compagno, nonostante le preghiere delle dottoresse.

Mio figlio nacque con le crisi di astinenza. Il tribunale dei minori dispose il nostro collocamento a casa di mia madre, un posto dove non vivevo in maniera stabile dai miei 14 anni, quando il compagno mi cacciò prima ancora che toccassi le sostanze. All’inizio non accettavo la lontananza dal mio compagno o, meglio, non accettavo la lontananza dall’eroina. Iniziai a prendere il metadone e mi tenevo pulita per una, massimo due settimane: il tempo di presentarmi per fare le urine. Dopodiché cadevo di nuovo, senza presentarmi più.

La diretta conseguenza di tutto ciò fu l’allontanamento da mio figlio e il suo affido a mia madre. Ho passato il capodanno del 2021 in ospedale per overdose. Mi ci portò il padre di mio figlio, ma giorni dopo mi vietò di presentarmi al serd . Iniziai ad andarci spesso, anche contro la sua volontà. Mi sottoponevo al test delle urine, consapevole che sarebbero uscite sporche: volevo si rendesse palese il mio bisogno di aiuto. L’ultima volta che mi presentai al servizio, prima dell’ingresso in struttura, avevo la faccia piena di croste: il padre di Cosimo me l’aveva spaccata. Quel giorno accettai che le dottoresse chiamassero la vigilanza e mio padre per farmi scortare a casa.

Non vedevo mio figlio da più di un mese. Mi riportarono da mia madre e rividi il mio bambino. Mi sentivo una larva al suo cospetto, non mi sentivo degna di fargli da madre, credevo di non esserne semplicemente in grado. Mi mangiava il senso di colpa. Quel giorno capii realmente l’importanza di mio figlio per me: non potevo essere quel tipo di madre.

Il 25 gennaio 2021 sono entrata in comunità. Due giorni dopo, Cosimo avrebbe compiuto un anno. Sono stata lontana da mio figlio i primi sei mesi del mio soggiorno: sei mesi in cui ho smentito le ingiustizie di cui mi credevo vittima e ho acquisito consapevolezza dei miei errori. Sei mesi in cui ho cercato — e cerco ancora — di diventare una madre degna di questo appellativo.

In comunità mi hanno aiutata a stare lontana dalla sostanza, ma, soprattutto, a costruire la mia persona, a lavorare sulle mie lacune e imparare dai miei errori, mettendo a frutto i miei pregi, quelli che tutti posseggono e che possono far fiorire il seme della vita e accendere la fiamma della curiosità. È stato doloroso guardare in faccia la realtà, ma mi ha consentito di agire e vivere nella concretezza.

Il 1° luglio 2021 ho riavuto mio figlio con il consenso del tribunale per minorenni.

Oggi ho un lavoro, frequento l’università in Scienze del Servizio Sociale, sperando che un domani la mia esperienza possa essere d’aiuto a persone che hanno vissuto nelle mie condizioni, e mi concentro sul mio ruolo di madre. Cerco di costruire una vita dignitosa per me e Cosimo. Cerco di essere una madre: non perfetta, ma vera.

Mi sono lasciata le macerie alle spalle. Sto costruendo una bellissima casa in cui l’unica cosa che c’è di vecchio sono le colonne: punti saldi della mia persona che prima non riconoscevo, ma sui quali adesso faccio riferimento in momenti di fragilità, come ce ne sono per chiunque, per potermi reggere su me stessa e, soprattutto, sostenere mio figlio.

(Il testo è stato scritto
dalla stessa protagonista della storia)