La buona notizia
È un sabato il giorno in cui Yeshua, facendo del fango, apre gli occhi a un uomo nato cieco (Giovanni, 9, 13).
È un sabato, ed entrambi sono a Gerusalemme, nei pressi del tempio: nella città più bella e paradossale della storia, buio e luce s’invocano a vicenda. È un sabato e l’autore del vangelo giovanneo, qualche versetto prima, ha narrato un drammatico evento: un tentato omicidio è avvenuto tra le sacre mura del tempio. È quel bestemmiatore di un galileo, maestro delle genti più disparate (e disperate) a dover morire: stando a ciò di cui l’autore del vangelo racconta, i Giudei hanno appena cercato di lapidarlo (Giovanni, 8, 59). È dopo esser fuggito alla morte che Yeshua passa accanto all’uomo che non vede dalla nascita.
È un sabato: il “sabato santo del culto religioso”. I suoi stessi seguaci infatti gli domandano: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Giovanni, 9, 2). «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Giovanni, 9, 3).
Yeshua passa accanto al cieco nato e continua, imperterrito, a sconvolgere i criteri dell’osservanza ortodossa: non solo quelli dei giudei (Giovanni, 8, 58), ma anche quelli dei suoi discepoli; perché questi criteri legano le mani al suo Abbà, sbarrano la strada alla salvezza e alla grazia.
Il rabbi di Galilea e l’uomo con gli occhi nella tenebra. L’uno, un maestro itinerante che “vaneggia” d’essere la luce (Giovanni, 9, 5) e l’altro, che della vita conosce solo il buio; a quest’ultimo è chiesto, con gli occhi impastati di sputo e fango, di compiere un affidante (e probabilmente pure imprecante!) atto di fede: spingersi fino alla piscina di Siloàm (senza veder nulla), per bagnarsi nelle sue acque (Giovanni, 9, 6-7). E nel cuore della Gerusalemme antica accade l’impensabile, il paradossale: il miracolo improvviso, la squarcio della luce nella tenebra, l’esultanza commossa del miracolato — la meraviglia seguita dal respingimento, la divisione nella folla (Giovanni, 9, 8-12). In una sola immagine: il prorompere del Regno. Dio irrompe nella storia dell’uomo come un urto: come impatto. L’incontro con la Luce divina è ineludibile crollo, è luce che lacera: e l’oscurità mondana e la tenebra religiosa.
Come si sente questo cieco, quanto dolore ha provato nell’essere attraversato dal chiarore; cosa percepisce mentre lo splendore s’apre, amoroso e impetuoso, un varco nei suoi occhi? Forse egli si sente come ci sentiamo noi, quando lungo la notte della vita aneliamo l’abbraccio del Dio di carne. Forse si sente come noi, quando da quest’abbraccio ci capiamo cinti, senza merito alcuno, senza nessuna pretesa d’osservanza o vanto sacro e sociale da ostentare. Vivi ci scopriamo nell’impatto con Dio, travolti dalla luce, con un cuore che arde sotto le ossa in frantumi. Amati.
L’autore del passo evangelico prosegue il suo racconto: dal paradosso di un miracolo incompreso ci conduce all’apice narrativo, il rifiuto radicale della classe religiosa (Giovanni, 9, 13-34). S’apre qui un processo inquisitorio dalle tinte drammatiche. Chi ha osato operare un miracolo di sabato è proprio il maestro di Galilea, quello stesso che avevano cercato di uccidere poco prima. S’avvia la tragica disputa religiosa (Giovanni, 9, 16), il dramma sociale e politico e, nel mentre, si perde di vista l’uomo. Né l’opinione di una folla scissa, né la classe dei farisei — provocata dalle “sfide” del rabbi Yeshua e innanzi a queste sfide, spaccata — né i genitori del cieco nato (per paura dei Giudei) si fan carico dello splendore di una vita miracolata. Il regno di Dio viene e sconvolge la fede che solo in apparenza è certa e sicura. La pasqua spaventa. E ci ritroviamo cacciati fuori — o a cacciare fuori? — dal Tempio: eppure passa accanto a noi — o accanto a quelli che allontaniamo — quel rabbi itinerante e irruento. «Credi tu nel Figlio dell’Uomo?». A domanda d’amore si può rispondere con un’altra domanda d’amore (Giovanni, 9, 36): «E chi è Signore, perché io creda in lui?».
di Deborah Sutera