Si è tenuta nel pomeriggio di mercoledì 8 marzo, alla Pontificia università Urbaniana, la giornata celebrativa “Donne nella Chiesa: artefici dell’umano”, alla quale ha partecipato, tra gli altri, la sotto-segretaria del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Del suo intervento pubblichiamo di seguito ampi stralci.
«Predicate sempre il Vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole!». Quanta forza evangelizzatrice scaturisce da questo insegnamento riportato nelle Fonti Francescane. Quanta potenza in questo ammonimento per lasciarci trasformare da Dio fino a farlo vivere e trasparire nella nostra storia personale terrena. Se la santità è tanto potente quando scaturisce da un cuore innamorato e affidato a Dio, quanto più lo è se scaturisce da due cuori innamorati tra loro, che si affidano a Dio e lo fanno respirare nel loro amore. Un amore nuziale, come quello trinitario, capace di espandersi dai coniugi ai figli e dalla famiglia al mondo.
Nella storia della Chiesa, tanti uomini e tante donne hanno vissuto una santità esemplare nel sacramento del matrimonio. Nel xx secolo, una rinnovata riflessione teologica sul matrimonio condusse la Chiesa a riflettere sulla possibilità che lo stato coniugale potesse essere esso stesso il fondamento per una “santità a due”.
La riflessione che desidero proporvi è per provare a fare un passo oltre il pensiero più tradizionale della santità come chiamata individuale: è piuttosto per pensare la santità degli sposi e della donna, in particolare, nella sua specifica vocazione coniugale e familiare, in quanto sposa e madre. Non da sola, ma nella pienezza di una complementarietà e di una reciprocità con il proprio sposo, capace di far risaltare agli occhi della Chiesa la forza del sacramento nuziale.
Sono stati in modo particolare Paolo vi , Giovanni Paolo ii , Benedetto xvi e Francesco a parlare alla Chiesa della specifica vocazione dei coniugi alla santità. Ciò significa che tutta la famiglia, in virtù dell’amore coniugale, assunto nell’amore di Dio, costantemente alimentato, sostenuto e arricchito dalla forza di Cristo, può essere condotta ad aprire il proprio cuore a Dio. Essa è luogo privilegiato per consentire al Signore di manifestarsi nell’intreccio delle relazioni. E gli sposi, in particolare, in forza della grazia, possono realmente sperimentare la presenza di Cristo in una vita ordinaria corroborata dal sacramento.
Oggi la Chiesa sta acquisendo la graduale consapevolezza della presenza di tante coppie di sposi e “famiglie della porta accanto” , che anche nel xx secolo hanno lasciato traccia di come poter vivere insieme con gioia una quotidianità piena di grazia cristiana. Persone comuni, impegnate nel lavoro, con figli, afflitte a volte da immensa povertà e da sofferenze, ma che in qualunque circostanza sono riuscite, come Louis e Zélie Martin — canonizzati nel 2015 da Francesco — a “camminare insieme verso il cielo”.
Oggi i giovani faticano a comprendere il valore del matrimonio come vincolo e sempre meno si sposano. Ancor più arduo è per loro pensare al matrimonio come via di santità in due. Eppure, credo che nella Chiesa sia giunto il tempo di incominciare a parlare in maniera organica e sistematica del matrimonio come di una vocazione, una chiamata a percorrere insieme la strada della santità: nell’unico sacramento del matrimonio, nel quale, come è scritto nella costituzione conciliare Gaudium et spes «i coniugi cristiani sono corroborati e quasi consacrati» (48) . La finalità di questo dono è che i coniugi siano condotti a Dio e siano «aiutati e rafforzati nello svolgimento della sublime missione di padre e madre».
È proprio nell’alveo della relazione coniugale che nella storia recente della Chiesa si sono distinte alcune donne, che prendendo sul serio e fino in fondo la loro vocazione nuziale hanno manifestato la forza del ruolo femminile nel matrimonio e nella famiglia, facendosi motore di una santità contagiosa all’interno del loro nucleo familiare.
È il caso di Daphrose, sposata con Cyprien Rugamba, morti martiri in Rwanda nel 1994 con 6 dei loro 7 figli e una nipotina. Daphrose, umiliata, pubblicamente tradita e ripudiata ingiustamente dal marito, con la forza della preghiera, l’amore e la generosità riesce a condurlo alla conversione, al coraggio di chiederle perdono e a una fede incrollabile, fino al martirio insieme.
I Beltrame Quattrocchi, i Bernardini, gli Amendolagine in Italia, gli Alvira e gli Ortiz in Spagna, i Takashi in Giappone, i Rugamba in Rwanda e molti altri sono esempi concreti di come il matrimonio non sia un ideale romantico e perfetto da raggiungere, ma una storia d’amore piena di vicissitudini, sempre in divenire, in cui Cristo può operare grandi cose quando trova spazio nei cuori. Essi ci dicono con la delicatezza e la forza prorompente della testimonianza che ogni famiglia può percorrere una propria via di santità, se siamo consapevoli che non possiamo salvarci da soli, bensì nella trama di relazioni in cui siamo inseriti.
I Martin sono riusciti a crescere le loro figlie con l’esempio di una fede viva e vissuta. E questo può avvenire anche nei contesti familiari più complessi e fragili del xxi secolo, in cui la sfida è la disponibilità a lavorare costantemente su sé stessi, affidandosi e confidando nella grazia di Dio, con i sacramenti, la preghiera, l’amore e il servizio al prossimo.
Qualcuno ha definito la famiglia contemporanea come una coreografia imperfetta, fragile, ma comunque un movimento, quasi una danza, che è l’essenza della vita. Nella famiglia, dove alcuni legami sono irrevocabili e non scelti — penso all’essere padri, madri e figli e ai ruoli della parentela che dal matrimonio si generano — si celebrano l’alterità, le fatiche, l’imperfezione e la scoperta della vita. E questo movimento genera tante opportunità di santità.
Chissà quante donne, appassionate e innamorate della loro vocazione sponsale, del loro ruolo educativo e della loro maternità percorrono un quotidiano cammino di santità accanto al loro uomo, spesso insieme, nella reciprocità, ma sempre più di frequente anche sole, in contesti sociali dove la paternità spesso è latitante. Quante famiglie al femminile sopravvivono oggi, specialmente nelle località geografiche più povere del pianeta, dove madri eroiche con fiducia e amore appassionato si donano per salvare e custodire i legami familiari, per dare un futuro ai propri figli, per mostrare loro che, nonostante le ingiustizie, siamo stati generati per tessere legami d’amore, per generare altri, oltre noi, alla vita vera, quella che sa trovare il senso di ogni cosa perché si affida a Dio, perché a Lui consegna il proprio dolore, le gioie, le fatiche, l’impegno, la speranza mai delusa di un Bene più grande.
La sfida per le nostre famiglie imperfette e fragili è mostrare ai nostri figli che la famiglia è un dono grande: la famiglia come Chiesa domestica, in cui le cose hanno un senso perché sono un dono che Dio ci affida per farle fruttare, dove impariamo che se qualcosa ci viene tolto è per ricevere un dono ancora più grande, dove noi madri desideriamo che i nostri figli trovino la felicità imparando a riconoscere i doni che la vita pone sul loro cammino. È questa la santità a cui siamo chiamati nelle nostre case. Anche in quelle che oggi sono spazzate via dalla guerra. Case distrutte, tra le cui macerie madri coraggiose, cementate da una fede incrollabile, si adoperano per proteggere i piccoli, gli anziani e i malati e per ricostruire con la solidarietà la speranza di un ritorno alla pace. Donne che in mezzo a tanta devastazione e morte comprendono, come fari di luce nel buio, che pur nella disperazione, dobbiamo cercare ciò che non muore.
di Gabriella Gambino