In occasione della Giornata internazionale della donna il nostro mensile «Donna Chiesa Mondo» ha pubblicato, nel numero di marzo, dieci “lettere speciali” indirizzate da dieci scrittrici. Ne riportiamo un articolo qui di seguito.
A te che hai perso tutto quello che si poteva perdere e non sai se lo riavrai mai indietro. A te che non hai volto, non hai occhi, non hai corpo perché sei costretta a nasconderli dietro a un vestito che ti fa somigliare a un fantasma. A te per cui essere donna è fardello, invece che benedizione. A te che non hai nome perché non sei libera. A te che speri che la vita che ti cresce nel ventre sia vita di maschio, perché pensarla femmina ti appare un maleficio.
Voglio scrivere a te anche se non mi potrai leggere, se non potrai più leggere niente perché ti è stato tolto pure lo studio. A te che andavi al mattino all’università tenendoti stretta a quella specie di normalità come il naufrago si tiene all’ultimo relitto della nave. E che seguivi i corsi perché studiare ti piaceva e ti piaceva pensare che fino a quando la tua mente era in grado di apprendere il tuo futuro non era del tutto chiuso e tu non eri finita. Scrivo a te perché sei l’unica che vorrei che mi leggesse. Tu e le tue compagne e i tuoi compagni, anche, quelli che hanno deciso di protestare insieme a te perché le porte dell’università tornino ad aprirsi alle loro amiche, alle loro sorelle, alle loro innamorate.
Scrivo a te che sei stata tradita molte volte e da tante persone diverse ma per lo stesso motivo: indifferenza, egoismo, cecità. Ti hanno insegnato che la donna vale meno dell’uomo, che deve chinare il capo per ottenere il suo consenso, che in strada deve strisciare contro un muro, che a niente vale piangere o gridare, che la sua voce è come un’arpa in fondo all’oceano. Ti hanno insegnato come vestire, come comportarti, le parole da dire, i pensieri da pensare, le convenienze e le inconvenienze di una vita già indirizzata su dei binari che non hai scelto tu. Ti hanno mentito, e tu lo sai, ma non hai potuto fare altro che dire di sì e andare avanti.
Ogni giorno ti veniva sottratto un pezzo, fino al giorno più brutto, il più difficile, quando sei arrivata, di buon mattino, davanti al portone della facoltà e lo hai trovato chiuso. Chiuso solo per te, per quelle come te, con il lungo abito azzurro cielo e gli occhi nascosti dietro un velo.
Scrivo a te, a cui un giorno hanno puntato le armi addosso e ti hanno intimato di andar via, perché quello dove ti recavi per studiare, quello in cui ti preparavi a immaginare un futuro diverso da quello di tua madre e di tua nonna, non era più il tuo posto. Ti scrivo perché non dovrebbe esserci un solo paese al mondo in cui qualcuno crede di sapere quale dev’essere il posto di una donna; e non dovrebbe esserci nessuno che possa dirci dove stare e disegnarci intorno un perimetro di filo spinato. Nessun paese dovrebbe essere così, nemmeno quello dove vivo io, in cui le donne non indossano il burqua, hanno libero accesso all’università ma vengono assassinate per aver detto no a chi dice di amarle e invece le uccide.
Scrivo a te, ragazza dalla pelle ambrata e gli occhi belli per chiederti scusa a nome di un Occidente che ha promesso di salvarti e poi ti ha lasciata sola, nelle stesse mani di quelli che pretendevamo di combattere. E quando non ci è convenuto più fargli la guerra abbiamo lasciato che si riprendessero il territorio, le leggi, la politica, la religione e te.
Scrivo a te perché sei nata al riparo della bandiera della Nato e ti sei ritrovata donna all’ombra scura del regime talebano. Ti avevano insegnato a tenere la penna e poi te l’hanno tolta, ti avevano insegnato a leggere e poi ti hanno sequestrato i libri, ti avevano insegnato a pensare e poi hanno creduto che non gli conveniva, perché pensare non serve per obbedire.
Scrivo a te ma so che le mie parole non ti arriveranno, e allora a cosa serve scrivere? Serve a capire, serve a raccontare a chi non sa, serve a piantare un seme nella nera terra e aspettare che qualcosa germogli, perché qualcosa spunta sempre.
E se quel seme è il seme della rivolta, allora darà vita a una pianta che è impossibile abbattere, come sta succedendo in Iran. Ma per essere forti non si deve essere soli. E anche per questo scrivo a te, ragazza afghana, perché ti sono vicina, solidale e sorella. Perché ho sentito anche io, almeno una volta nella vita, l’espressione: tu no, perché sei donna.
Scrivo a te perché più di tutte noi sai che cosa significa sentirsi strappare il presente dalle mani, assistere inerme al futuro che svanisce perché qualcuno ha deciso che: no, perché sei donna.
E io invece proprio per questo ti scrivo: perché sei donna. Oggi più che mai la rivoluzione è donna: donna è la mutazione, donna è la vita, donna è la libertà. Quante parole, ognuna femminile e singolare, come te. Ti scrivo perché sei unica ma sei come tante, sei sineddoche dell’ingiustizia, metonimia del male che spesso acceca il mondo, metafora di una vita che è viva solo a metà.
Che volino fino a te queste parole, che siano vento che sollevi il velo, che siano acqua che allevi la tua sete di giustizia, che siano chiave che apra per te tutte le porte, che siano fuoco che bruci le leggi di quegli uomini che non sanno cosa sia l’umanità.
di Viola Ardone