A me piacevano le ragazzine coi capelli biondi e lisci, con la gonna blu pieghettata, gli occhialini tondi sulla punta del naso, e che magari suonavano il violino. De gustibus direte voi. Ma il problema era che io ero arrivato fuori tempo massimo e i gusti del tempo erano altri: permanenti ricce stropicciate, gonne a fiori zingaresche e zoccoli olandesi. Un’aria nel complesso trasandata che trafiggeva crudelmente il mio senso del bello. Però, si sa, per un sedicenne l’accettazione nel gruppo dei pari è imperativo categorico. Per cui per non incorrere nell’ironia e il disprezzo dei compagni finivo col consolare la mia miserrima condizione affettiva ascoltando musica in solitudine. Quella di Lucio Battisti. Sì, perché Lucio (mi si perdoni la familiarità) non solo evocava come nessun altro la violinista biondina dei miei sogni adolescenziali, ma ne era anche l’alter ego. Mi spiego: come lei (seppur popolarissimo) Battisti non rientrava nel main stream giovanile di quegli anni. Lo si cantava nei pullman delle gite parrocchiali, o lo si ascoltava nel chiuso della propria stanza. Ma non certo nelle notti delle occupazioni a scuola. Era snobbato dalla cultura giovanile allora egemone. Non c’era traccia di sociale nelle sue canzoni, in un’epoca in cui tutto aveva da essere sociale e politico. Incedeva al surreale al tempo dell’apologia del triste realismo socialista; metteva i sogni in poesia e musica quando si sentenziava, invece, che la cultura fosse sovrastruttura dei rapporti economici. Ma soprattutto parlava d’amore in anni in cui il conflitto era eretto a regola di vita, fino a tramutarsi in astio, poi in odio e poi violenza. “Intimista”, “propagatore di una distrazione di massa”, e anche un po’ “fascio” diceva la leggenda metropolitana. Battisti sapeva di essere considerato tale ma se ne infischiava. Per coraggio e per il riscontro che gli veniva dal successo, perché l’amore cova comunque anche sotto la cenere. Io non sono un esperto di musica, e altri, più dotti di me, hanno saputo spiegare perché le sue melodie hanno innovato la musica leggera italiana. Io posso solo dire che a me piaceva tanto, e che, a differenza che con la biondina violinista, ebbi il coraggio dell’outing, dell’affermarlo pubblicamente e contro le mode del tempo. Il suo essere controcorrente mi aveva insegnato ad esserlo anch’io. Mi insegnò ad essere libero nella verità. Può sembrare buffo ma fu da lì che cominciai a comprendere che Gesù di Nazareth era più rivoluzionario nella verità di Che Guevara, che i comboniani facevano più bene al mondo di Lotta Continua, che nei Salmi di Salomone c’è più poesia che in Jack Kerouac. Cioè il pensare libero, fuori dalla prigionia degli schemi, mi ha fatto diventare un uomo maturo. Il 5 marzo Lucio Battisti compie 80 anni (uso volutamente il presente) ed è ancora cantato da tutti quelli che amando la libertà scelgono l’amore. Oggi più attuale che mai perché «in un mondo che prigioniero è il mio canto libero sei Tu».
di Roberto Cetera