Pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione italiana l’articolo apparso sulla rivista dei gesuiti statunitensi «America».
«Non c’è niente di nuovo sotto il sole». Questo verso delle Scritture tratto dal libro dell’Ecclesiaste (1, 9) mi torna in mente mentre rifletto sull’agitazione espressa da alcuni nella Chiesa e dai media in relazione al motu proprio del Santo Padre Traditionis custodes e alla recente conferma data nel Rescriptum ex audientia pubblicato dal cardinale Arthur Roche, prefetto del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.
Ricordiamo che in quei documenti di Roma, il successore di Pietro, che è il garante dell’unità della Chiesa, ha esortato i vescovi ad aiutare tutti i cattolici romani ad accettare pienamente che i libri liturgici promulgati da san Paolo vi e da san Giovanni Paolo ii sono l’unica espressione della lex orandi (legge della preghiera) del rito romano. Il fatto che il Santo Padre lo abbia dovuto fare sessant’anni dopo il concilio Vaticano ii mi rattrista, ma non mi sorprende. Nei miei 50 anni di sacerdozio e 25 di episcopato ho visto sacche di resistenza agli insegnamenti e alle riforme conciliari, e specialmente il rifiuto di accettare il rinnovamento della liturgia.
Di fatto, san Giovanni Paolo ii ha preso di petto questa resistenza e nella sua Lettera apostolica nel xxv anniversario della costituzione conciliare “Sacrosanctum concilio” sulla sacra liturgia del 4 dicembre 1988, dove ha scritto: «Bisogna riconoscere che l'applicazione della riforma liturgica ha urtato contro difficoltà dovute soprattutto ad un contesto poco favorevole, caratterizzato da una privatizzazione dell’ambito religioso, da un certo rifiuto di ogni istituzione, da una minore visibilità della Chiesa nella società, da una rimessa in questione della fede personale. Si può anche supporre che il passaggio da una semplice assistenza, a volte piuttosto passiva e muta, ad una partecipazione più piena ed attiva sia stato per alcuni un'esigenza troppo forte. Ne sono risultati atteggiamenti diversi ed anche opposti nei confronti della riforma: alcuni hanno accolto i nuovi libri con una certa indifferenza o senza cercar di capire né di far capire i motivi dei cambiamenti; altri, purtroppo, si sono ripiegati in maniera unilaterale ed esclusiva sulle forme liturgiche precedenti intese da alcuni di essi come unica garanzia di sicurezza nella fede» (Vicesimus quintus annus, n. 11).
Sì, ammette, alcune innovazioni fantasiose hanno danneggiato l’unità della Chiesa e offeso la pietà dei fedeli. Ma, precisa, «ciò non deve portare a dimenticare che i pastori e il popolo cristiano, nella loro grande maggioranza, hanno accolto la riforma liturgica in uno spirito di obbedienza ed anzi di gioioso fervore». E poi aggiunge qualcosa che tutti i cattolici, e specialmente le guide nella Chiesa, devono avere a cuore: «Per questo bisogna rendere grazie a Dio per il passaggio del suo Spirito nella Chiesa, qual è stato il rinnovamento liturgico» (n. 12).
Ciò che intendo dire è semplicemente questo: come san Giovanni Paolo ii, Papa Francesco prende sul serio il fatto che la riforma della liturgia sia stata il risultato del movimento dello Spirito Santo. Non è stata l’imposizione di una ideologia alla Chiesa da parte di una persona o un gruppo. E quindi nessuno dovrebbe insinuare che Papa Francesco (e se è per questo anche il cardinale Roche), nell’emanare Traditionis custodes e autorizzare il Rescriptum, sia mosso da ragioni diverse dal desiderio di rimanere fedele ai suggerimenti dello Spirito Santo che hanno dato vita agli insegnamenti e alle riforme del concilio.
C’è un’altra cosa scritta dal compianto Papa santo nella sua lettera del 1988 che noi vescovi dovremmo prendere sul serio. Dopo aver elencato le molte ragioni per restare fedelmente attaccati agli insegnamenti della costituzione sulla sacra liturgia e alle riforme che essa ha reso possibile, egli cita la relazione finale del sinodo straordinario del 1985: «Il rinnovamento liturgico è il frutto più visibile di tutta l’opera conciliare». Aggiunge poi: «Per molti il messaggio del Concilio Vaticano ii è stato percepito innanzitutto mediante la riforma liturgica» (ibid.)
Il punto è chiaro: se noi vescovi vogliamo sul serio aiutare i cattolici ad accogliere pienamente gli insegnamenti del concilio Vaticano ii, allora abbiamo l’obbligo di promuovere, in unione con il successore di Pietro, l’intera portata delle riforme liturgiche conciliari. È questa la ragione per cui Papa Francesco ha invitato tutti i cattolici ad accettare il rinnovamento liturgico del Vaticano ii come unica espressione della lex orandi del rito romano. La sua aspirazione è profondamente radicata nell’antica tradizione della Chiesa espressa per la prima volta da Prospero d’Aquitania: «Consideriamo anche i sacramenti delle preghiere che fanno i vescovi, le quali, tramandate dagli apostoli, in tutto il mondo e in ogni Chiesa cattolica si recitano in pari modo, affinché la norma del pregare fondi la norma del credere» (ut legem credendi lex statuat supplicandi)”.
Persistenti rifiuti degli sforzi del Santo Padre per realizzare l’obiettivo della piena accettazione della liturgia riformata come unica espressione del modo di pregare nel rito romano non mi sorprenderebbero, visto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Ma dovremmo chiamarli con il loro vero nome: fare resistenza ai suggerimenti dello Spirito santo e minare la fedeltà autentica alla Sede di Pietro.
di Blase J. Cupich
Arcivescovo di Chicago, co-presidente cattolico del National Catholic-Muslim Dialogue, sostenuto dal Comitato per gli affari ecumenici e interreligiosi della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti