Hic sunt leones
La crisi russo-ucraina

La crisi armata russo-ucraina che insanguina da ormai un anno l’Europa orientale ha drammaticamente rimesso in discussione la geopolitica internazionale, con conseguenze e riflessi anche sui Paesi africani. Infatti, il 2 marzo dello scorso anno, una settimana dopo l’inva sione dell’Ucraina, 35 Paesi decisero di astenersi dal voto contro l’aggressione russa all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Di questi, 17 erano africani; mentre altri otto Paesi di quel continente risultarono assenti in aula. In quell’occasione, l’enfasi espressa dagli analisti del voto, secondo cui l’Africa sembrava volesse voltare le spalle all’Occidente, è apparsa esagerata anche perché al Palazzo di Vetro un solo Paese africano votò contro la risoluzione di condanna della Russia: l’Eritrea.
Altri 28 su 54 si espressero per il sì. Da rilevare peraltro che l’Unione africana (Ua) si è sempre espressa contro l’invasione dell’Ucraina, auspicando un immediato cessate il fuoco. Nel frattempo, dall’inizio del conflitto in Ucraina — ovvero dal voto del 2 marzo per «deplorare quella che si qualifica come aggressione commessa dalla Russia» — si sono svolte altre votazioni: quella di fine marzo sulle conseguenze umanitarie dell’invasione; di aprile per sospendere Mosca dal Consiglio per i diritti umani e quella del 12 ottobre scorso in cui è stato chiesto alla Russia di annullare il proprio «tentativo di annessione illegale» di quattro regioni ucraine a seguito dei «cosiddetti referendum illegali».
Il testo di quest’ultima risoluzione, dal titolo «Integrità territoriale dell’Ucraina: difesa dei principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite», è stato adottato con 143 voti favorevoli, 5 contrari e 35 astenuti. Dei 35 Paesi astenuti, 19 sono Stati africani. Tra le 19 astensioni, figurano in particolare, Algeria, Burundi, Congo, Guinea, Mali, Togo, Sud Africa e soprattutto Eritrea. Per la prima volta, infatti, quest’ultima, non ha votato contro la risoluzione Onu scegliendo di astenersi. Ma nell’ultima risoluzione a sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina, approvata questa notte all’Assemblea generale dell’Onu, ben due Paesi africani, Mali e Eritrea, hanno votato contro. A riprova del fatto che i governi africani nel loro complesso, con modalità diverse, stanno tentando di mantenere un posizionamento che danneggi il meno possibile il loro profilo internazionale, soprattutto dal punto di vista economico. Un indirizzo che trova la sua sintesi nelle parole di Macky Sall, presidente del Senegal e della Ua, lo scorso dicembre, poco prima del vertice di Washington fra Stati Uniti e Africa: «Vogliamo lavorare e commerciare con tutti. Abbiamo troppo sofferto il peso della storia. Per questo non vogliamo essere il terreno fertile di una nuova Guerra fredda». Parole chiare e dirette per evitare di essere vittime designate di un ennesimo scontro fra grandi potenze. Anche perché i Paesi africani e le loro popolazioni continuano comunque ad essere soggette alle vulnerabilità di sempre, acuitesi peraltro prima con l’enorme shock esterno rappresentato dal covid-19 e poi successivamente a seguito della guerra russo-ucraina. Tra queste, oltre gli elevati livelli di povertà estrema, insicurezza alimentare e i limitati margini per interventi di mitigazione attraverso l’espansione o l’introduzione ex novo di programmi di protezione sociale, figurano anche le persistenti turbolenze dell’economia mondiale, i cambiamenti climatici e il perdurare della belligeranza in vasti settori della macroregione subsahariana.
Una delle preoccupazioni maggiori legate all’attuale congiuntura riguarda l’inflazione, trainata dall’aumento delle commodities agricole, di cui molti Paesi africani sono grandi importatori, ma anche dall’aumento prolungato del livello medio generale dei prezzi di beni e servizi. Considerando che la spinta inflazionistica ha assunto dimensioni preoccupanti, con circa la metà dei Paesi africani in doppia cifra nel corso del 2022, l’unico rimedio sembra essere quello di una stretta monetaria così come già avvenuto, almeno in parte, lo scorso anno. D’altronde, tenendo conto della crisi economica mondiale, è compito delle banche centrali mantenere bassa l’inflazione e per raggiungere questo obiettivo, istituti come la Bce o la Federal Reserve utilizzano come strumento principale i tassi di interesse. In Africa questo significa concretamente che il loro aumento acuisce la cronica difficoltà di accesso al credito che caratterizza gran parte del tessuto imprenditoriale africano. A ciò si aggiunga la vexata quaestio del debito, fortemente condizionato dalla sua finanziarizzazione, che sta raggiungendo livelli preoccupanti in molti Paesi africani. I debiti in sé non dovrebbero costituire un problema se servissero a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il problema è che in Africa stanno crescendo in maniera sproporzionata essendo in gran parte speculativi e sganciati dall’economia reale.
Secondo l’agenzia Bloomberg, i prestiti a lungo termine erogati ai governi africani sono più che raddoppiati raggiungendo i 636 miliardi di dollari nel decennio 2011-2021. La guerra in Ucraina ha peggiorato la situazione economica spingendo sull’orlo del baratro molti Paesi, chiudendo l’accesso ai finanziamenti, esaurendo le riserve di valuta estera e mandando in tilt i bilanci nazionali. Con queste premesse, la sofferenza macroeconomica che sta caratterizzando alcuni Paesi africani pare destinata anche quest’anno ad acuirsi. Basti pensare al Ghana che nel dicembre 2022, si è ritrovato ad essere il terzo Paese africano finito in default dall’inizio della pandemia, accodandosi allo Zambia nel 2020 e al Mali nello stesso anno. Secondo lo Undp (United Nations Development Programme), sono cinquantaquattro le economie di Paesi in via di sviluppo, 25 dei quali sono nella macroregione subsahariana, che hanno bisogno di una riduzione urgente del debito (meglio ancora se si trattasse di cancellazione) a causa delle crisi globali in atto a livello planetario. Ecco che allora la somma fra congiuntura speculativa e fragilità interne ad ogni singolo «sistema-Paese» aumenta le insolvenze. Anche le più forti economie continentali — Nigeria, Egitto e Sud Africa — che da sole rappresentano poco meno del 50 per cento del Pil africano, non saranno immuni dall’acuirsi delle problematiche socioeconomiche e dai rischi macroeconomici. Se non vi saranno interventi strutturali da parte dei grandi attori internazionali, nei prossimi anni anziché accelerare il tentativo di agganciare un giorno le economie avanzate, l’Africa, soprattutto la macroregione subsahariana, rischia di vedere aumentare il divario con i Paesi industrializzati.
Come ha pertinentemente osservato l’economista Paolo Raimondi: «Non c’è da essere degli esperti per capire che le risorse finanziarie vengono prosciugate dal pagamento degli interessi sul debito, la mancanza di prestiti e le politiche di austerità causano la morte quotidiana delle fasce più deboli dei Paesi poveri: bambini, anziani, malati». I risvolti sulle condizioni di vita si stanno dispiegando pienamente nelle fasce più fragili delle popolazioni africane. Qui non si tratta semplicemente di rinegoziare termini e scadenze del debito contratto da questo o quel Paese, da questo o quel creditore. Non basta contrastare la speculazione erogando aiuti, sapendo bene in partenza che la finanziarizzazione dell’economia è tale per cui si continuerà a chiedere più del dovuto a qualsivoglia debitore. La questione di fondo è che oggi, più che mai nella storia, l’economia mondiale ha bisogno di redenzione. Basti pensare all’effetto devastante dei declassamenti operati durante la pandemia dalle tre agenzie di rating statunitensi: Moody’s, Standards & Poor’s e Fitch, note un po’ in tutto il mondo per il loro estro nello stilare il giudizio sulla solvibilità dei governi, delle obbligazioni di Stato, dei titoli pubblici e privati e anche delle società finanziarie e industriali. I loro downgrade hanno avuto un impatto fortemente negativo sulle economie africane, amplificando gli effetti della crisi russo-ucraina, sia per quanto concerne l’aumento del costo dei prestiti, come anche in riferimento all’indebolimento dell’offerta di capitale da parte degli investitori stranieri. Per le popolazioni locali tutto questo si è tradotto in povertà, instabilità sociale e sottosviluppo. Mai come oggi, alla luce delle sollecitazioni impresse dal magistero di Papa Francesco sull’economia mondiale, ribadite peraltro in occasione del suo recente viaggio in Africa, occorre andare al di là delle logiche liberiste che stanno avendo un impatto rovinoso sulle periferie del mondo.
di Giulio Albanese