· Città del Vaticano ·

Incontro con Marco Bellocchio
A tu per tu con il regista di “I pugni in tasca” ed “Esterno Notte”

Di fronte al Mistero
in punta di piedi

 Di fronte al Mistero in punta di piedi  QUO-043
21 febbraio 2023

La conversazione con Marco Bellocchio comincia subito dal cuore del messaggio cristiano: l’amore verso Dio e verso il prossimo. E allora proviamo, ma solo provvisoriamente, a mettere tra parentesi il primo dei due amori e a sviluppare il secondo. Questo perché avevo sentito qualche giorno prima il regista di Bobbio affermare durante la presentazione del libro Una trama divina di padre Antonio Spadaro che «l’esperienza di amare il prossimo, addirittura di amare il nemico a me è quasi impossibile, sconosciuta. Se venisse qualcuno, se venisse a svelarmi come si fa, che questo amare il prossimo mio come me stesso è possibile, questo per me sarebbe una vera rivoluzione». È stato un momento intenso, che toccato il cuore di molte persone che gremivano la sala de «La Civiltà Cattolica». Alcuni tra i presenti l’hanno paragonata ad una confessione, altri ad una preghiera. A me è sembrato un appello che mi ha spinto a cercare l’artista e ad andarlo a trovare, senza nessuna pretesa di essere quel “qualcuno” capace di svelare, ma almeno di continuare la conversazione così, come due viandanti lungo il cammino della vita.

«Quella espressione, “amare il prossimo come me stesso” ce l’ho impressa nel cuore e nella memoria;» mi risponde con il suo modo di parlare semplice, sincero, disarmante e anche pieno di pause, come se cercasse insieme a te le parole giuste, «e sottolineo amare non di più ma “come”; è però già tantissimo: l’amore vero e gratuito per gli altri ed è per me qualcosa di sconosciuto. Non nel senso di mai sentito, perché è un’espressione che, insieme a tante altre, mi è stata insegnata da bambino; ho avuto infatti, come tanti, un’educazione cattolica, poi però la mia vita, prima di tutto famigliare, con una serie di problematiche profonde, mi ha messo sulla difensiva, per cui è prevalso un principio di sopravvivenza. Ti difendi, ti arrocchi, ti chiudi. Non hai risposte e perdi la fede».

Il regista rivisita il suo percorso artistico e anche politico e chiama in ballo alcuni “maestri”.

Naturalmente poi, anche una serie di politiche e artistiche, mi hanno spinto verso non tanto il materialismo perché poi io sono sempre stato un idealista, non sono mai stato un vero marxista, mi hanno spinto verso una ricerca dove la religione era assente. Però è vero, quando ho parlato alla presentazione del libro di padre Spadaro (intervento improvvisato, non previsto) ho voluto citare il film di Dreyer Ordet. La lista sarebbe lunga di grandi artisti che hanno a che fare con la trascendenza e che mi hanno affascinato. Penso a Robert Bresson e al suo Diario di un curato di campagna. Bresson ha un rapporto diretto con la trascendenza, sia pure nella sofferenza, quasi nell’agonia (la sofferenza di Cristo sul monte degli ulivi e poi sulla croce, l’agonia) ho in mente oltre al Curato anche quel capolavoro assoluto che è Un condannato a morte è fuggito che è un discorso sulla resistenza, sul non arrendersi mai, non disperare mai. Ma oltre al cinema c’è la letteratura e allora penso a Dostoevskij o a Tolstoj che è stata una scoperta tardiva: nei suoi racconti e in lui c’è un rapporto costante col Cristo, con il Vangelo. Penso a quel capolavoro assoluto che è Il divino e l’umano.

Cerco di farlo soffermare su questo tema della forza della rappresentazione e gli chiedo se per leggere un libro o vedere un film non c’è sempre e comunque bisogno di una “fede”. Una fede poetica, se vogliamo, per cui, per dirla con il poeta Coleridge, è necessaria una provvisoria “sospensione dell’incredulità” e Bellocchio ritorna su Ordet Dreyer confidando la sua commozione ogni volta che rivede quel film.

Mi commuovo di fronte al miracolo che vedo rappresentato; non l’ho visto nella realtà ma attraverso la rappresentazione, la fantasia, la creatività di un artista ed è indubbio che lui mi ha rappresentato un miracolo che mi ha emozionato. La donna che dopo aver partorito muore viene “risvegliata” da Johannes, il matto Johannes, e chiaramente questo risveglio mi emoziona. Mi viene in mente un’altra scena, tratta da La dolce vita di Fellini, in cui Mastroianni va a incontrare questa bambina che vede la Madonna e qui c’è una grande recita, una grande rappresentazione interamente pagana. Descrive soprattutto la disperazione e l’inganno.

Lo spingo a parlare dei suoi film ma Bellocchio chiama in causa, come scudo, l’autorità di padre Virgilio Fantuzzi, per decenni critico letterario de «La Civiltà Cattolica» ma forse più che scudo «il grande amico Virgilio» come lo chiama, è piuttosto una spia rivelatrice.

Virgilio scorgeva delle tracce di religiosità in alcuni miei film, e mi diceva (e poi scriveva): tu tradisci nella tua rappresentazione anche dei contenuti trascendenti. E portava diversi esempi come la scena iniziale di Vincere, dove c’è Mussolini che sfida Dio ad apparire altrimenti sarebbe “provata” la sua inesistenza. E Virgilio vedeva poi nella fine del film, nella caduta di Mussolini, la risposta di Dio trent’anni dopo. Io ascoltavo Virgilio prima di tutto con grande affetto, e sono stato contento di quell’ultima intervista che poi ho inserito nel film Marx può aspettare, in cui Virgilio vedeva il mio cinema come una confessione ininterrotta e anche come una Via Crucis».

Mi dichiaro d’accordo con padre Fantuzzi, ma che ne pensa il diretto interessato?

Si possono fare delle deduzioni sulla mia esperienza che stanno in piedi, certamente; quello che posso dire è che io le rispetto. In tutto quello che faccio cerco di esercitare la tolleranza, la rabbia della giovinezza si è molto mitigata, ma tutto questo non è il segno di una conversione, come quella dell’Innominato o di San Paolo per intenderci.. Ci sono stati tanti grandi convertiti, è un fatto che io rispetto ma che rimane per me sempre qualcosa che non capisco. Un enigma. Parlando proprio con Virgilio nell’intervista di Marx può aspettare c’è la mia domanda sull’aldilà. Nel senso che mia madre era disperata per il suicidio di mio fratello gemello Camillo. Noi tutti cercavamo di raccontarle l’aldilà per consolarla, noi che non ci credevamo, ma nello stesso tempo glielo raccontavamo. E lei in realtà non credo che pensasse all’aldilà, alle fiamme eterne, ma alla sua disperazione perché questo suo figlio si era tolto la vita quasi contro di lei. E a quella domanda, nell’intervista, Virgilio mi rispose “Ma guarda che l’aldilà non è come lo immagina Dante, quella era la Commedia, la grande rappresentazione!” E lui stesso, pur credendoci, non dava nessuna risposta, non vedeva nessuna immagine che rappresentasse l’aldilà e anche l’Inferno, il Paradiso, il Purgatorio sarebbero stati totalmente diversi da come il catechismo ce li aveva insegnati.

Visto che ha citato i grandi convertiti, provo a proporgli il collegamento tra “rivoluzione” e “conversione”. Lei crede nella possibilità di una rivoluzione che io, da credente, posso chiamare conversione?

Io credo alla conversione e alla fede degli altri. Ne ho viste tante conversioni di persone che da atei sono diventati cristiani. Perché in effetti ci dev’essere qualcosa che improvvisamente realmente fa luce, ma ripeto: io sto da quest’altra parte, e non è un’attesa, una speranza di convertirmi. Poi c’è il desiderio di Dio, me lo ripeteva spesso proprio mio fratello Piergiorgio che è mancato l’anno scorso, diceva: “ai preti basta che tu voglia credere”. Allora voglio precisare: è vero che ci sono molti che dicono “io non credo ma vorrei credere in Dio”, ma io no. Io vivo come posso, con una discreta coerenza, facendo le cose in cui credo, cercando di avere dei rapporti d’amore con il prossimo, con le persone, non tutte, rapporti non di odio e non distruttivi, però mi fermo qua.

Quali sono le cose in cui crede?

Le cose in cui credo... è qualcosa che nasce dall’interno, riferito, prima di tutto, ad un rapporto di interesse, d’amore con le persone che frequento. Sì, uno può amare anche i milioni di poveri che vivono nel mondo. Ma vorrei limitarmi al mio piccolo spazio vitale. E qui poi c’è il mio lavoro artistico: è chiaro che io cerco di non sbagliarmi e di rispondere alle cose che mi colpiscono. Quasi sempre per arrivare a un film, io parto da un’immagine e poi è come se la seguissi, se espandessi questo pensiero, questa prima ispirazione e andassi avanti. In questo senso io mi riconosco una sincerità ed una coerenza, nel senso che ci provo, e ovviamente posso sbagliare, però è quello che io prevalentemente ho cercato di fare e ci ho sempre creduto. Non ci sono film o avventure artistiche che ho fatto in modo freddo semplicemente per un calcolo di successo o economico, questo me lo riconosco.

Domande più scabrose, che poi è la domanda che nel Vangelo Gesù ci rivolge da oltre duemila anni: voi chi dite che io sia? Chi è per lei Gesù?

Mi attraggono nel Vangelo i personaggi che sono attorno a Gesù, i personaggi minori, penso a Marta e Maria ad esempio, che hanno fede in lui perché nei personaggi secondari si può lavorare più di fantasia, hanno un’umanità normale. I miracoli per me sono stati più un ostacolo che altro. Non credo ai miracoli. Anche quando ho battuto brevemente strade politiche o utopie politiche è chiaro che spesso mi veniva in mente il Cristo che dice appunto “voi per il Vangelo dovete “odiare” i vostri fratelli..”, questo suo radicalismo assoluto, per cui dice al ricco di lasciare tutto. Un Cristo senza miracoli. Questo voler cambiare le cose mi ha sempre affascinato. Anche perché bisogna riconoscere che il cristianesimo ha determinato un passaggio storico grandioso. Il suo messaggio contro la schiavitù è stato determinante per la caduta dell’impero romano. Così come alcune scene del Vangelo: Gesù che scaccia i mercanti dal tempio e, al tempo stesso, la debolezza, la fragilità degli Apostoli, li vedi lì che franano continuamente, non capiscono, si addormentano mentre lui sta lì nell’orto degli ulivi a pregare nell’angoscia…

Nel film che sto ultimando in cui c’è questa contrapposizione, c’è un crocifisso. Il film riguarda il caso Mortara, questo fatto storico del bambino ebreo di fatto rapito, clandestinamente battezzato e quindi educato a forza ai valori e ai principi del cattolicesimo. Siamo nell’800, davvero in altri tempi, e lui si trova in questa casa dei catecumeni a Roma dove gli viene imposto sin da piccolo, separandolo dalla sua famiglia, il credo cristiano. Lui è colpito dal crocifisso e questo colpisce me, perché il suo è uno sguardo di bambino, lo posso immaginare, perché invece per noi il crocifisso è una “cosa” abituale, che sta lì e non lo “vediamo” più. Invece questo bambino lo vede e compie un gesto. Il punto è che lui vorrebbe in qualche modo conciliare la sua famiglia ebraica con il Papa che vuol farne un cristiano perché battezzato. Non aggiungo altro, ma voglio accennarlo per esprimere quanto il Golgota, l’atroce supplizio di Cristo, la croce che è diventata il segno del cristianesimo, è un’immagine che è indelebile nel mio inconscio.

La storia grazie al cristianesimo è cambiata. È quindi possibile un cambiamento, una rivoluzione a livello sociale? Questo tipo di “miracoli” possono accadere?

Dopo la rivoluzione cristiana ci sono state altre rivoluzioni, la rivoluzione francese, quella bolscevica, ecc. ecc. Però dopo tutte queste rivoluzioni io vedo che comanda ancora la legge del più forte. Guardiamo oggi, la guerra in Ucraina, un’invasione fatta di violenze atroci, ma non solo lì, tutto il mondo è pieno di conflitti terrificanti. Guardo a ciò che accade nella storia e anche se molti dicono che si va verso la catastrofe, penso che l’uomo si fermerà prima e troverà una via di salvezza; non credo che vada inesorabilmente verso il baratro, il nulla totale. Ci sono delle contro-risposte, delle forze umane che si contrappongono a questo».

Martin Scorsese, dialogando con padre Spadaro ha riflettuto sulla grazia che per lui è proprio questa possibilità del cambiamento. Per lei la grazia è possibile?

Non la chiamo così, ma appunto per me il cambiamento è possibile. Nel mio piccolo, rispetto queste cose immani, gigantesche, è come se la mia vita, il “movimento” che scorgo e che sempre mi sorprende è quando mi viene in mente qualcosa, quando immagino qualcosa che poi si traduce in una pagina scritta e poi in un’immagine. Questa cosa qui io non so che cosa sia, però è chiaramente qualcosa che mi sorprende, che accade improvvisamente e mi può cogliere in qualsiasi situazione, non devo per forza stare dietro la scrivania, accade. E questa “accensione”, in modo diverso, riguarda tutti, non solo me, anche te, tutti. E avviene attraverso l’apparizione di un qualcosa che non c’era prima.

Il Papa ritorna spesso su questo tema che lui indica con la parola “creatività”, una scintilla che tocca ogni uomo, in diverso modo e diversa intensità (c’è una differenza tra me e un artista), però ti sorprende come dici tu, e rivela un’eccedenza, un plus.. forse rivela in qualche modo una creazione e un creatore.

Il processo è questo, la sorpresa. Io però lo mantengo sempre nell’ambito di qualcosa che è inconscio, psichico. C’è qualcosa oltre il mio pensiero che me lo induce? Questo non posso affermarlo. Quello che posso dire è che in questo mondo ci sono miliardi di persone che sono purtroppo a un livello di pura sopravvivenza a cui non puoi fare solo un discorso sulla libertà, sull’immaginazione. Lo dico con sincero rammarico perché penso che la fantasia e l’immaginazione, l’invenzione può portarti alla salvezza. A volte rifletto sul mondo della Rete. Io non sto sui social network, ma quando vedo che c’è, ad esempio, un influencer che ha 30 milioni di followers che inganna più o meno lucidamente, questo significa che ci sono tante persone che nel mondo hanno bisogno di punti di riferimento, quali essi siano soltanto per non naufragare, che ci sono queste fragilità profondissime e molto diffuse.

Riporto la conversazione sul punto da dove siamo partiti: l’amore verso il prossimo e gli cito Albert Camus: “l’uomo è colui che si trattiene”: esiste l’istinto animale per cui si è portati a prevaricare sugli altri e a far valere la legge del più forte, però avviene a volte l’imprevisto, che alcuni uomini riescono a trattenersi e a rispondere invece con amore gratuito, generosità, solidarietà e affetto.

Questa generosità è qualcosa a cui attribuisco una grandissima importanza, forse perché non è qualcosa di compatto e assoluto che posseggo. La perdo, la ritrovo… Lo vedo nel mio lavoro: durante le riprese di un film la tua umanità è messa alla prova perché devi continuamente essere generoso verso gli altri, nel senso di farti capire, di aprirti.

Monsignor Enrique Planas, che è stato direttore della Filmoteca Vaticana, diceva che Bergman per tutta la vita ha resistito alla tentazione di credere, una bella definizione che si può applicare anche a lei, non trova?

Non lo so. Bergman tutta la sua grande filmografia è piena di disperati che cercano senza trovarli Dio o Cristo. Io mi trovo ora, in un’età molto ragguardevole, con la fortuna di avere ancora una mente in movimento, di essere in movimento. Quello che mi può accadere accadrà e vivo con libertà questo tratto della mia vita che mi appare ancora piuttosto piena di cose. Vivo senza cadere nell’angoscia, come il curato di campagna di Bernanos e Bresson, che era vicino alla morte e viveva, da malato, nella sofferenza e nell’angoscia. Certamente non credo nell’immortalità e so che arriva il momento in cui la vita finisce, e quindi mi interessa viverla giorno per giorno, ora per ora, perché ho delle chiamate che non sono “la chiamata”, ma alle quali cerco di rispondere.

Ne Il settimo sigillo di Bergman, il cavaliere Antonius Bloch si confessa e sfoga la sua rabbia contro un Dio che si nasconde ai sensi e si chiede “perchè dovrei avere fede nella fede degli altri”? Egli la riconosce questa fede ma la reputa insufficiente.

Molto interessante e molto vero: io parlo con te, e rispetto la tua fede e non ne dubito. Io però non ci arrivo, e per me la fede, che non metto in discussione negli altri, resta un mistero, davanti al quale mi fermo come sulla soglia. Ma la cosa importante è che tu e io possiamo essere amici. Io sono amico di qualcuno che crede, e mi fermo qui.

Questo fatto si trova anche nella predicazione di Papa Francesco che manda il suo messaggio a tutti perché tutti siamo fratelli e possiamo quindi essere amici.

Sì è così, mi colpisce questo pontificato, Papa Francesco: la sua voce calda, umana, risonante, mi ha sempre colpito. Questo cercare di parlare appunto anche a prescindere dal credere dell’altro. Quando dice “preghiamo il Signore” e tutte le cose della fede, io rispetto la sua “buona fede” che per me resta un mistero che non cerco di scoprire. Io mi fido della sua fede che io non ho.

Ci salutiamo e sulla porta, mentre mi dona la sceneggiatura della sua ultima opera Esterno notte, e gli ricordo l’affermazione del teologo Harvey Cox per cui i cristiani devono essere un enigma per il mondo, una domanda posta all’attenzione del mondo.

Effettivamente è così, questo è vero. Ci vuole attenzione, e rispetto.

di Andrea Monda


Padre Fantuzzi su  “Vincere”

«Se non mi fulminerà, sarà la dimostrazione che non esiste»


Pubblichiamo uno stralcio dall’articolo “Vincere di Marco Bellocchio” di Virgilio Fantuzzi apparso su «La Civiltà Cattolica» (quaderno 3817) nel luglio 2009. 

Bellocchio ha la mano delicata e, allo stesso tempo, il polso fermo nel trattare stati di alienazione mentale. Vero e proprio specialista nella materia, il regista può essere paragonato a un chirurgo che interviene con il bisturi su organi vitali. Al tempo del mai dimenticato I pugni in tasca (1965) la sua attenzione si è concentrata sul caso di un adolescente che non ce la fa a crescere e pertanto si ribella inutilmente contro il clima oppressivo di cui soffre nell’ambito dell’ambiente familiare. 

Con La Cina è vicina (1967) lanciava strali contro il vuoto formalismo e l’asfittico immobilismo della borghesia di provincia, intesa come ambiente che soffoca sul nascere ogni aspirazione alla libertà. Da qui la descrizione virulenta del collegio retto da religiosi in Nel nome del padre (1972), terzo lungometraggio della sua carriera, dove l’educazione oppressiva è presentata come un vero e proprio carcere della coscienza. Matti da slegare (1975) è un documentario, realizzato da Bellocchio in collaborazione con Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, dedicato alle condizioni disumane nelle quali vivevano coloro che erano reclusi nei manicomi prima della cosiddetta legge Basaglia. [...]

Come negli altri film di Bellocchio, anche in questo la religione è tirata in ballo a più riprese. [ ...] 

La parte più sorprendente di Vincere, visto sotto il profilo dell’attenzione che Bellocchio riserva alla simbologia religiosa, è costituita dall’inizio e dalla fine della pellicola. Schermo buio. Brusio confuso. Le immagini, in lenta assolvenza, ci portano in un luogo dove si svolge, all’inizio del secolo passato, un dibattito... teologico. «In questo agone — dice il moderatore (un sacerdote) —, in questa singolar tenzone di carattere teologico, dopo la dotta esposizione di don Moretti, cedo la parola al signor Benito Mussolini, sindacalista nonché esponente del partito socialista...». 

Il giovane Mussolini si fa prestare un orologio. Le lancette segnano le cinque e dieci. «Io sfido Dio — dice con voce stentorea —. Gli dò cinque minuti di tempo per fulminarmi. Se non mi fulminerà, sarà la dimostrazione che non esiste». Scorre il tempo. Si ode il ticchettio dell’orologio. Gli astanti trattengono il fiato. Tra essi c’è Ida. «Il tempo è scaduto — dice Mussolini —. Dio non esiste». Scoppia la bagarre, la prima di tante che chiuderanno altre scene del film. Chi è il vero pazzo o, nel caso che lo siano un po’ tutti, chi lo è più degli altri? La domanda rimane sospesa fino alla fine del film. 

Piazza Venezia rigurgita di folla vociante. Sono le immagini di repertorio con le quali il film sta per concludersi. «Vincere!...», grida il Duce dallo storico balcone cercando di sovrastare le grida di assenso e di esultanza, «... e vinceremo!». Si susseguono immagini relative alla guerra: bombe, incendi, crolli, sinistrati, feriti, cadaveri... Gli accordi dissonanti della colonna sonora, composta da Carlo Crivelli, porta al diapason l’effetto prodotto dalle immagini raccapriccianti. Ecco la sorpresa finale. Silenzio improvviso. Si ode il ticchettio dell’orologio e si vedono in dettaglio le lancette che segnano sul quadrante le cinque e dieci. Il giovane Mussolini e Ida sono lì come all’inizio del film. I partecipanti al dibattito stanno ancora trattenendo il fiato. Sul quadrante di Dio i cinque minuti della sfida non sono passati. 

Immagini di repertorio (già viste in altri filmati sulla fine del fascismo). Una grande testa bronzea del Duce scende lentamente dentro una morsa dove viene stritolata. Il film finisce così. La morsa rappresenta simbolicamente la storia ma, come dice la Bibbia, la storia è mossa dalla mano di Dio. Forse Bellocchio non ha inteso avallare di proposito questa verità, ma la saldatura perfetta tra l’inizio e la fine del film, ottenuta mediante il ticchettio dell’orologio, autorizza a pensare che le cose siano andate proprio così. 

di Virgilio Fantuzzi