· Città del Vaticano ·

La buona Notizia
Il Vangelo della VI domenica del tempo ordinario (Mt 5, 17-37)

Sovrabbondanza
e compimento

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07 febbraio 2023

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Matteo, 5, 17). «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo, 5, 20). Di una sovrabbondanza e di un compimento è foriero il brano evangelico della prossima domenica (Matteo, 5, 17-37). Sovrabbondanza, compimento: ma innanzi a quale “ritratto narrativo” ci troviamo? In quale atto scenico l’autore del vangelo di Matteo pone queste parole sulla bocca del rabbi Yeshua? A chi queste parole sono rivolte?

Risalendo di alcuni versetti se ne prende presto atto: ci troviamo nel bel mezzo di una peregrinazione missionaria; al capitolo iv, infatti, il narratore specifica così: «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo». A questo punto della narrazione la fama del rabbi si sta diffondendo «per tutta la Siria» (Matteo, 4, 24), folle numerose gli van dietro partendo dalla Galilea, dalla Decapoli — territorio pagano — da Gerusalemme, dalla Giudea: uomini e donne in cerca di soluzioni ai propri tormenti o ai mali dei propri infermi (cfr. Matteo, 4, 25). Con una peregrinazione si apre il capitolo v di Matteo nel quale il nostro brano è incastonato a mo’ di gemma preziosa (o pietra d’inciampo?).

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo...» (Matteo, 5, 1-2). Si apre qui lo straordinario “discorso della montagna”, ma l’incipit di questo v capitolo nasconde una provocazione potente e addirittura drammatica, se ignorata. In Matteo, 5, 1 pare che il maestro di Galilea non parli più “a una folla indistinta” di viaggiatori ostinati dell’“ultima speranza”, che s’attendono lo scioglimento dei nodi del proprio dolore dal rabbi carismatico di turno. No, no: in Matteo, 5, 1 il maestro si sta rivolgendo ai discepoli suoiμαθηταυ, i suoi seguaci diretti. Le folle “ricompariranno” sulla scena solo tre capitoli più avanti quasi materializzandosi dal nulla (Matteo, 7, 28) e, proprio per questo, possono essere ritenute “destinatarie ai margini”. Dunque, con certa fondatezza si può supporre che anche Matteo 5, 17-37 sia indirizzato soprattutto ai discepoli suoi: ecco delineata la cornice narrativa in cui s’inserisce il passo evangelico di domenica prossima. A quelli che vestono “gli abiti della sequela” è detto: «non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Matteo, 5, 18) e «se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo, 5, 20). Sono i discepoli suoi, proseliti prescelti agli occhi delle folle, che il rabbi ammonisce: «Chi poi dice al fratello (...): “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna» (Matteo, 5, 22) e «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore (…). E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna» (Matteo, 5, 28.30).

È necessario lasciarsi “ferire” dalla spada a doppio taglio che è la Scrittura (cfr. Ebrei, 4, 12) e permettere a quest’ardente freccia scritturistica, che la liturgia consente sia scoccata, di colpirci fino al punto di divisione tra anima e spirito. L’invito a tutti i predicatori è fondato e sereno, lì dove dovesse sopraggiungere, domenica prossima, la già nota tentazione di costruire un’intera omiletica moraleggiante sul fondamento di quel «non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge» (Matteo, 5, 18) da destinare a delle assemblee indistinte. Si presti cosciente attenzione al dato scritturistico: è anzitutto ai discepoli più prossimi che il Gesù matteano rivolge queste sue parole. A noi cristiani “interamente donati” o “praticanti”, discepoli della prima e della seconda ora, che vestiamo gli abiti della sequela (in qualsiasi modo essa si declini), a noi queste parole sono rivolte: e più “ontologicamente vicini” ci riteniamo nella sequela, più esse hanno diritto di ferirci per la vita. A noi è promessa traboccanza di vita eterna, l’entrata nel Regno, se la nostra giustizia sarà “più sovrabbondante” rispetto a quella dei farisei. 

di Deborah Sutera