· Città del Vaticano ·

Nella “Giornata dell’ebraismo”

Tradizioni, valori
e impegni comuni

 Tradizioni, valori e impegni comuni  QUO-013
17 gennaio 2023

La «Giornata dell’ebraismo» che la Chiesa in Italia celebra oggi, 17 gennaio, è segno del grande valore che la Chiesa cattolica riconosce all’ebraismo. Questa giornata intende offrire ai cristiani l’opportunità di ricordare con gratitudine le radici ebraiche della loro fede, come pure di sensibilizzarli al dialogo attualmente in corso con l’ebraismo. La «Giornata dell’ebraismo» si celebra il 17 gennaio oltre che in Italia anche in Polonia, in Austria e nei Paesi Bassi, introdotta dalle rispettive conferenze episcopali. Questa giornata è una buona occasione per passare in rassegna gli aspetti più significativi del dialogo ebraico-cattolico.

Il 22 novembre scorso ha avuto luogo un importante incontro tra Papa Francesco e una delegazione ebraica. Per la prima volta nella storia del dialogo ebraico-cattolico, una grande organizzazione ebraica ha potuto tenere un incontro proprio in Vaticano. Nei giorni 21 e 22 novembre, il World Jewish Congress ha organizzato a Roma e in Vaticano la Riunione del comitato esecutivo, convocando i massimi responsabili delle comunità ebraiche di questa organizzazione appartenenti a vari paesi. Il 21 novembre la delegazione è stata accolta dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, presso il Tempio Maggiore. Il 22 novembre circa centotrenta delegati si sono riuniti nella Nuova aula del Sinodo in Vaticano. Lo stesso giorno, il gruppo è stato ricevuto in udienza papale nella Sala Clementina del Palazzo apostolico. Nel suo discorso, il Santo Padre si è soffermato soprattutto sulle comuni tradizioni e sui comuni valori religiosi di ebraismo e cristianesimo, che possono servire da base per assumere posizioni e intraprendere azioni congiuntamente. Innanzitutto, Papa Francesco si è riferito al fatto che ebrei e cristiani concordano nella confessione dell’unico Dio, il Dio di Israele: «Professiamo la fede nel Creatore del cielo e della terra, che non solo ha dato origine all’umanità, ma plasma ogni essere umano a sua immagine e somiglianza (cfr. Genesi, 1, 26). Crediamo che l’Onnipotente non è rimasto distante dalla sua creazione, ma si è rivelato, non comunicando soltanto con alcuni, isolatamente, ma rivolgendosi a noi come popolo. Tramite la fede e la lettura delle Scritture trasmesse nelle nostre tradizioni religiose, possiamo entrare in relazione con Lui e diventare collaboratori della sua provvidente volontà».

Infatti, sia ebrei sia cristiani professano un solo e unico Dio, che è il Dio di Israele. Il cardinale Joseph Ratzinger osservava a questo proposito: «Compito del popolo eletto è quindi donare il loro Dio, il Dio unico e vero, a tutti gli altri popoli, e in realtà noi cristiani siamo eredi della loro fede nell’unico Dio». Da parte ebraica, questo è stato confermato nella Dichiarazione Dabru Emet, pubblicata negli Stati Uniti l’11 settembre 2000 e firmata da diversi rabbini rinomati: «Ebrei e cristiani adorano lo stesso Dio. Prima della nascita del cristianesimo, erano solo gli ebrei che adoravano il Dio di Israele. Ma anche i cristiani adorano il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il creatore del cielo e della terra. Sebbene la fede cristiana non sia un’alternativa accettabile per gli ebrei, come teologi ebrei siamo lieti che milioni di persone siano entrate in relazione con il Dio di Israele attraverso il cristianesimo».

Anche i cristiani credono nel Dio di Israele perché lo hanno accolto attraverso la mediazione dell’ebreo Gesù. Il monoteismo ebraico, così come si è formato nel corso della storia di Israele, ha fatto da sfondo all’immagine cristiana di Dio che ha assunto poi caratteristiche proprie e distinte. Ciò perché a Gesù, il Cristo, si sono riconosciute qualità divine, vedendolo in rapporto con il Padre in senso ontologico come “Figlio di Dio” , in modo tale da porlo all’interno della Trinità come una delle tre Persone, ma della stessa sostanza di Dio. Tale sviluppo del cristianesimo è incomprensibile per gli ebrei: il fatto che Dio possa farsi uomo esula dall’orizzonte del pensiero ebraico. Eppure si può affermare che l’ebraismo pre-cristiano disponeva delle categorie di pensiero per concepire l’incarnazione di Dio. Il Dio degli ebrei non è un autocrate ripiegato su di sé, sufficiente a sé stesso e separato dal mondo, ma è un Dio che rivolge il suo sguardo all’essere umano, è un Dio la cui manifestazione può avvenire persino come svuotamento di sé nel mondo. L’Antico Testamento è essenzialmente una storia d’amore tra Dio e il suo popolo Israele; Dio si china continuamente su di esso, è in costante contatto con lui, abita in mezzo a lui con la sua gloria. Al popolo offre “indicazioni per una vita felice” nel rapporto con Sé stesso e con gli altri, si rivela a Mosè sul Sinai, ne accompagna il cammino nel corso degli anni, fa risplendere su di lui il suo volto, invia i suoi angeli come messaggeri, mette le sue parole sulla bocca dei profeti.

Il profeta veterotestamentario è un portavoce di Dio: la Parola di Dio segna così la presenza di Dio e la sua efficacia per la vita del popolo. Nell’ebraismo antico è diffuso il concetto della shekhina, la dimora di Dio in mezzo al popolo di Israele e alle sue istituzioni. Al riguardo, i rabbini parlano della discesa di Dio e del suo legame con il popolo; all’epoca in cui non vi era più il tempio, la shekhina esprime il proseguimento della fedele alleanza stipulata da Dio. Ma il pensiero che Dio possa effettivamente prendere dimora tra gli uomini, che la sua Parola si concretizzi e si faccia carne, è un concetto solo cristiano. Il modo in cui viene vista la figura di Gesù, come Messia di Israele, come Dio fatto uomo e Figlio di Dio, come semplice figlio di Israele o come rabbino ebreo, rappresenta la linea di demarcazione fondamentale tra ebraismo e cristianesimo. Al riguardo, nel brano di Luca, 2, 34, il vecchio Simeone ha ragione quando si riferisce a Gesù nel tempio in questi termini: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione», mentre in precedenza Gesù era descritto dallo stesso evangelista come luce per illuminare le genti e gloria del popolo di Israele (cfr. Luca, 2, 32). Tutti gli altri elementi divergenti tra ebraismo e cristianesimo dipendono in definitiva dalle qualità che vengono attribuite a Gesù.

Ma ciò che Gesù ha portato nel cristianesimo come eredità ebraica forma, per così dire, la struttura teologica e la base indispensabile del cristianesimo stesso. Nella parte intitolata «Temi fondamentali delle Scritture del popolo ebraico e loro accoglienza nella fede in Cristo» (19-65), il documento della Pontificia commissione biblica, del 24 maggio 2001, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana fa riferimento agli aspetti scritturistici principali e alla loro interpretazione. Che il Dio d’Israele si sia rivelato nella sua Parola rivolgendosi così agli uomini è un credo comune a ebrei e cristiani, anche se gli ebrei identificano la Parola rivelata con la Torah, mentre i cristiani sono convinti che la Parola si sia incarnata in Gesù Cristo, il quale rappresenta dunque la rivelazione definitiva e insuperabile di Dio. È interessante in questo contesto notare che sia la maggior parte degli ebrei ortodossi sia i cattolici credono in una rivelazione sia scritta che orale, la quale, a un esame più attento, differisce nettamente nelle due tradizioni a livello di origine e di orientamento. Che Dio, come creatore del cielo e della terra, abbia creato lo spazio vitale per l’essere umano, che circondi e preservi tale spazio, e che l’essere umano, in quanto “immagine di Dio” (cfr. Genesi, 1, 26-27), sia il suo amministratore e debba assumersi la giusta responsabilità nei confronti del creato, queste sono le verità di base comuni sia all’ebraismo che al cristianesimo.

Nel suo discorso pronunciato il 22 novembre scorso davanti alla delegazione del World Jewish Congress, Papa Francesco ha ricordato anche che sia ebrei che cristiani, affidando la loro vita al Signore, guardano alla vita eterna che si prepara con la stessa speranza: «Abbiamo anche uno sguardo simile sulla fine, abitati dalla fiducia che, nel cammino della vita, non procediamo verso il nulla, ma incontro all’Altissimo che ha cura di noi, incontro a Colui che ci ha promesso, alla conclusione dei giorni, un regno eterno di pace, dove terminerà tutto ciò che minaccia la vita e la convivenza umana. Il nostro mondo è segnato dalla violenza, dall’oppressione e dallo sfruttamento, ma tutto ciò non ha l’ultima parola: la promessa fedele dell’Eterno ci parla di un futuro di salvezza, di un nuovo cielo e di una nuova terra (cfr. Isaia, 65, 17-18; Apocalisse, 21, 1) dove pace e gioia avranno stabile dimora, dove la morte sarà eliminata per sempre, dove Egli asciugherà le lacrime su ogni volto (cfr. Isaia, 25, 7-8), dove non vi saranno più lutto, lamento a affanno (cfr. Apocalisse, 21, 4). Il Signore realizzerà questo futuro, anzi Lui stesso sarà il nostro futuro. E, sebbene esistano idee diverse nell’ebraismo e nel cristianesimo su come si configurerà tale compimento, la confortante promessa che abbiamo in comune permane. Essa alimenta la nostra speranza, ma non meno il nostro impegno, affinché il mondo che abitiamo e la storia che viviamo rispecchino la presenza di Colui che ci ha chiamati a essere adoratori suoi e custodi dei nostri fratelli».

Il nostro Dio è un Dio che si prende cura degli esseri umani, e ci sta accanto nel bisogno, nella disperazione, nella paura. Non solo: Dio vuole la nostra salvezza e ci offre la salvezza di sua spontanea volontà. Dio è percepito sia dagli ebrei sia dai cristiani come il salvatore e il liberatore: per gli ebrei, il grande evento salvifico nella storia coincide con la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto (Pessach), mentre per i cristiani la liberazione dal peccato e dalla morte avviene con la risurrezione di Cristo dai morti (Pasqua). Dio è partigiano, è l’alleato del suo popolo Israele, stringe con lui un’alleanza, che si può riassumere essenzialmente in questi termini: «Io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo» (cfr. Levitico, 26, 12; Geremia, 7, 23). Naturalmente, già nell’Antico Testamento ci sono varie alleanze con diversi segni, e rinnovamenti di alleanze precedenti, ma tutti testimoniano la lealtà di Dio verso il suo popolo. La Nuova Alleanza nel Sangue di Gesù Cristo si richiama a queste idee di alleanza, le presuppone, ma dà loro un senso nuovo. I primi cristiani avevano coscienza di «trovarsi in profonda continuità con il disegno di alleanza manifestato e realizzato dal Dio d’Israele nell’Antico Testamento. Israele continua a trovarsi in una relazione di alleanza con Dio, perché l’alleanza-promessa è definitiva e non può essere abolita. Ma i primi cristiani avevano coscienza di vivere una nuova tappa di questo disegno, tappa che era stata annunciata dai profeti ed era stata ora inaugurata dal sangue di Gesù, “sangue di alleanza”, perché versato per amore» (Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 42).

Ebrei e cristiani sono inoltre accomunati dall’attesa che il Regno di Dio si realizzi nella gloria alla fine dei tempi; il tempo terreno ha dunque un termine e giungerà a compimento immettendosi nell’eternità. Al riguardo, l’attesa del Messia svolge un ruolo determinante in entrambe le tradizioni: gli ebrei stanno ancora aspettando il Messia, mentre i cristiani credono che sia già venuto in Gesù di Nazareth il quale ritornerà alla fine dei tempi nella gloria come sovrano del mondo. Entrambi aspettano dunque il Messia negli ultimi tempi, anche se per i cristiani è già chiaro chi e come egli sia.

Dal fatto che ebrei e cristiani condividono un ricco patrimonio spirituale, Papa Francesco conclude che entrambi devono lavorare insieme per il bene dell’umanità: «Alla luce dell’eredità religiosa che condividiamo, guardiamo al presente come a una sfida che ci accomuna, come a un’esortazione ad agire insieme. Alle nostre due comunità di fede è affidato il compito di lavorare per rendere il mondo più fraterno, lottando contro le disuguaglianze e promuovendo una maggiore giustizia, affinché la pace non rimanga una promessa dell’altro mondo, ma sia già realtà in questo. Sì, la strada della pacifica convivenza comincia dalla giustizia che, insieme alla verità, all’amore e alla libertà, è una delle condizioni fondamentali per una pace duratura nel mondo (cfr. Giovanni xxiii , Lettera enciclica Pacem in terris, 18, 20 e 25). Quanti esseri umani, creati a immagine e somiglianza di Dio, sono sfigurati nella loro dignità, a causa di un’ingiustizia che lacera il pianeta e rappresenta la causa soggiacente a tanti conflitti, la palude in cui ristagnano guerre e violenze! Colui che tutto ha creato secondo ordine e armonia ci invita a bonificare questa palude di ingiustizia che affossa la convivenza fraterna nel mondo, tanto quanto le devastazioni ambientali compromettono la salute della terra. Iniziative comuni e concrete volte a promuovere la giustizia richiedono coraggio, collaborazione e creatività. E beneficiano grandemente della fede, della capacità di riporre la fiducia nell’Altissimo e di lasciarsi guidare da Lui, piuttosto che da meri interessi terreni, che sono sempre immediati e non lungimiranti, particolari e incapaci di abbracciare l’insieme. La fede ci ridesta invece al pensiero che ogni uomo è a immagine e somiglianza dell’Altissimo, chiamato a incamminarsi verso il suo regno. Le Scritture, poi, ci ricordano che poco o nulla possiamo fare se Dio non ci dà la forza e l’ispirazione: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori” (Salmi, 127, 1). In altre parole, le nostre iniziative politiche, culturali e sociali per migliorare il mondo — quello che voi chiamate Tiqqun Olam — non potranno avere il buon esito sperato senza la preghiera e senza l’apertura fraterna alle altre creature in nome dell’unico Creatore, il quale ama la vita e benedice gli operatori di pace».

di Norbert Hofmann
Reverendo segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo