· Città del Vaticano ·

Gianluca Vialli è morto ieri dopo aver giocato una “partita” di cinque anni con la malattia

Faceva gol anche con quel “compagno” indesiderato

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07 gennaio 2023

«E io dovrei lamentarmi? Resto un privilegiato anche nella malattia. Oggi, poi, gioco in tutte e due le squadre...». All’ospedale Bambino Gesù quel 10 ottobre 2019 Gianluca Vialli — morto ieri a 58 anni — era stato un vero “capitano” per l’incontro dei piccoli ricoverati e dei loro familiari con la nazionale italiana di calcio. Gli abbracci nelle stanze e nelle corsie dell’“ospedale del Papa” sono anche uno dei segreti che ha contribuito a creare una comunità — con Vialli saggio consigliere — prima ancora che una squadra capace di vincere, oltre ogni pronostico, il titolo europeo l’11 luglio 2021. Proprio a Londra, dove Vialli viveva con la famiglia ed è morto non lontano da Wembley, lo stadio della finale.

Chi gli era accanto al Bambino Gesù ricorda che Vialli entrò in campo con un atteggiamento di discrezione, mascherato da un «...ma i più piccoli riconoscono l’allenatore Mancini e i calciatori, non un vecchietto come me!». Di più: il suo era per davvero un pellegrinaggio, anzitutto dentro se stesso, vissuto drammaticamente nei reparti pediatrici alla frontiera con la vita.

Da due anni Vialli aveva per “compagno di squadra” un tumore al pancreas. Ne avrebbe «fatto volentieri a meno, ma non è stato possibile». Eppure persino quell’indesiderato compagno ha «insegnato qualcosa». Nel proprio mestiere un centravanti ha l’obbligo della concretezza. Altrimenti, se si concede il lusso di ricami, il gol se lo scorda: arriva, implacabile, il difensore a spezzare azioni e sogni. Vialli — bomber di razza nella sua Cremonese, poi nell’epopea calcistica della Sampdoria, nella Juventus e nel Chelsea, oltre che nella nazionale — “svolazzi” non se li è mai concessi. Né in area di rigore, imbeccato ai suoi tempi d’oro da Mancini e Baggio, Zola e Del Piero. Né nei cinque anni della “partita della vita”, la più difficile, giocata a perdifiato “con” e non “contro” quel “compagno” che sarebbe stato meglio non avere in squadra.

«Non vorrei morire prima dei miei genitori e vorrei avere il tempo di accompagnare le mie due figlie all’altare nel giorno del loro matrimonio». Non c’è riuscito. Alle figlie Olivia e Sofia — 18 e 16 anni, nate dal matrimonio con Cathryn White — aveva anche proposto la chiesa per le nozze: il santuario della Beata Vergine della Speranza a Grumello Cremonese, a pochi passi da dove era nato. Proprio lì Vialli, in un santuario che si rifà alla speranza, si era recato in pellegrinaggio dopo la vittoria agli Europei, postando sui social un selfie arricchito da una didascalia spirituale: «È il tempo della gratitudine».

«Ho paura di morire: non so quando si spegnerà la luce che cosa ci sarà dall’altra parte, ma in un un certo senso sono anche eccitato dal poterlo scoprire» aveva confidato di recente. Da “capitano” non si era tirato indietro, consapevole che «raccontare la malattia», non vergognarsi della fragilità, avrebbe dato coraggio ad altre persone che stanno soffrendo lontano dai riflettori.

Vialli non si è avvicinato impreparato all’ultima “partita”. Aveva anche un «angelo custode» (parole sue) in Andrea Fortunato, morto a 23 anni il 25 aprile 1995 per una leucemia. Giocavano insieme nella Juve. «Andrea, speriamo che in paradiso ci siano squadre di calcio così che tu possa essere felice e correre dietro a un pallone» disse Vialli dall’ambone del duomo di Salerno durante le esequie. In fin dei conti, gli ha fatto eco, lo scorso 19 dicembre, il cardinale Matteo Zuppi ai funerali di Siniša Mihajlović, morto a 53 anni, anch’egli per una leucemia: «Alla fine l’unica squadra che conta è quella dei Fratelli tutti, dell’unica umanità, che deve combattere la difficile “partita della vita”».

All’indomani della morte di Fortunato, Vialli raccontò la sua esperienza di fede per il libro Grazie Dio (Piemme). «Sono cattolico, ma riconosco di non essere così praticante come dovrei e vorrei». Ma «la preghiera la vivo molto intensamente. Sarà banale dirlo, ma non prego per vincere una partita o per segnare un gol. Sarebbe assurdo. Nella vita ci sono cose molto più serie di una partita di calcio. La mia preghiera riguarda certo il mio lavoro, ma chiedo al Signore di aiutarmi a stare bene fisicamente, di non infortunarmi. Prego anche che non ci siamo violenze» negli stadi.

«Il momento centrale della vita di un cristiano è la messa» le sue parole. «Forse vado contro l’opinione comune, ma ascolto con tanta attenzione la predica. Mi sono stati veramente di grande aiuto tanti sacerdoti capaci di adattare la Parola di Dio alla vita quotidiana. È importante affrontare i problemi alla luce del Vangelo, dell’insegnamento di Cristo». Ma, concluse, «non ho la presunzione di insegnare qualcosa in materia di fede. Spero di essere sempre ricordato come un giocatore serio, corretto e onesto». La sua vita è stato il suo gol più bello, dolorosamente sudato e con un gran “tifo”. No, non è stata una sconfitta.

di Giampaolo Mattei