Pelé è stato un cittadino del mondo. È vero, non si capisce Pelé senza il suo essere brasiliano fino al midollo, il suo essere parte del popolo brasiliano. Ma lui non appartiene solo al Brasile. E non appartiene solo al calcio. Per come la vedo io, Pelé è una di quelle persone straordinarie che hanno una luce diversa. Non è un caso se suo padre lo ha chiamato Edson in onore di Thomas Edison, l’uomo che ha «illuminato» il mondo: nel 1940 quando è nato Pelé è arrivata anche la luce elettrica nel suo piccolo e povero paese di Três Corações. È molto più di una simpatica coincidenza. Perché, a modo suo, anche Pelé ha «illuminato» il mondo ed è stato un «inventore».
Ho conosciuto Pelé come un amico: certo, va anche detto che in Brasile ci sono 200 milioni di amici di Pelé! Sono stato un atleta di un altro sport — il volley, ho giocato anche in Italia nella Panini Modena e ho partecipato a 3 Olimpiadi — e ho collaborato strettamente con Pelé come dirigente sportivo. Sono diventato ministro dello Sport in Brasile nel 1991 ricevendo il testimone da Zico e passandolo poi proprio a Pelé. Oggi sono membro del Comitato olimpico internazionale. Con Pelé ho lavorato tanto per sostenere la candidatura olimpica di Rio de Janeiro 2016. È straordinario: ogni volta che Pelé partecipava a un incontro l’atmosfera cambiava. Portava allegria, sorrisi: era come se lui ti ricordasse che «tutto è possibile». Rivelo un aneddoto: un alto dirigente sportivo, con una simpatica battuta, disse che per avere i voti alla candidatura di Rio, Pelé avrebbe dovuto chiedere scusa per la valanga di gol messi a segni contro tutte le squadre nazionali del mondo! E Pelé, che era un uomo di spirito, si mise in ginocchio e — ridendo — chiese scusa per tutti i suoi gol!
Da atleta e da uomo di sport, mi ha sempre colpito come i compagni di squadra di Pelé siano sempre stati unanimi nel parlarne in toni entusiasti. In Brasile ci sono stati, e ci sono, grandissimi calciatori. Ma Pelé è, oggettivamente, su un altro pianeta. Sicuramente dal punto di vista tecnico. Ai suoi tempi, soprattutto nella prima parte della sua carriera, non c’erano le telecamere per documentare tutto. Ad esempio, uno dei suoi gol più famosi è tramandato da calciatori, spettatori e giornalisti: non c’è alcun documento visivo. Insomma, senza voler fare classifiche, Pelé semplicemente non è superabile: Rivelinho, Tostão, Jairzinho, Garrincha, Zico, Ronaldo... Ma Pelé resta e resterà Pelé. Qualcosa di più. Si dice che in Brasile «il calcio è una religione e Pelé ne è il dio».
Qual è il segreto di Pelé? Solo una tecnica straordinaria che gli ha consentito di realizzare un numero irripetibile di gol e di vincere un numero straordinario di partite? No. A mio giudizio, la sua forza è stata l’essere «avanti» rispetto al suo tempo: con la mentalità e anche con il modo di giocare. Tanto che ancora oggi Pelé, in campo, sarebbe moderno. Questo essere «avanti» lo ha reso un mito, direi il «marchio di fabbrica» più famoso al mondo. Più della Coca Cola! Dovunque tu vada... Pelé lo conoscono tutti! È persino un modo di dire se fai una cosa «fenomenale» non solo nel calcio: ma chi sei, Pelé?
Dovrebbe far pensare che lui sia nato in una famiglia povera, semplice. Questa provenienza accomuna tantissimi atleti brasiliani che proprio nello sport cercano un riscatto per un pieno inserimento nella vita sociale. In questa prospettiva, la realtà in Europa e negli Stati Uniti d’America è molto diversa. In Brasile è rarissimo che gli atleti di alto livello possano studiare. E se vale oggi, figuriamoci quando Pelé era ragazzo. Ad esempio in Svezia, ai Mondiali del 1958, lui rimase stupito di vedere «un Paese senza neri». Quell’esperienza in Europa fu decisiva, lo cambiò. Non si era mai allontanato da casa eppure era il giocatore più forte al mondo. Oggi la realtà dei calciatori molto diversa.
Lo ricordo come un uomo molto emotivo. Si commuoveva facilmente. Il ricordo del padre Dodinho, ad esempio, gli faceva sempre scendere le lacrime. Suo papà giocava centravanti. Era un numero 9, bravo di testa e questo spingeva Pelé a migliorare in quel colpo. Soprattutto, ricordava, il padre gli aveva insegnato l’umiltà, il non sentirsi «il migliore». E lui, nelle sue preghiere, chiedeva a Dio di dargli la forza di essere come il padre.
Pelè ha sempre ripetuto la parola «Dio». È stato un uomo di fede. Manifestata e testimoniata pubblicamente. Non ha mai nascosto la sua fede in Dio. Mai. E non si è mai sottratto alle iniziative solidali per i più poveri, in particolare per i bambini. L’ho sempre sentito parlare di Dio con grande semplicità.
Nel tempo della malattia, vissuta con dignità e con umiltà, tutto il Brasile ha fatto il tifo per Pelé. Ma credo non solo il Brasile. Non penso che qualcuno abbia mai fatto il tifo «contro» Pelé, neppure quando era in campo. Anche gli avversari che lo contrastavano non potevano non ammirare la sua bravura e il suo stile. Ma è anche vero che il mito di Pelé, il suo essere simbolo di riscatto e di speranza, di umanità e di talento, continuerà a rinascere e a vivere in ogni bambina e in ogni bambino che, soprattutto in una favela, alzerà lo sguardo verso il cielo e inizierà a correre cercando una vita migliore anche attraverso lo sport.
di Bernard Rajzman