· Città del Vaticano ·

Bilancio della Cop27

Progressi e delusioni
in un pianeta che va a fuoco

 Progressi e delusioni in un pianeta che va a fuoco  QUO-293
23 dicembre 2022

A quasi un mese dalla conclusione della 27° Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, è ora di fare un bilancio degli ultimi negoziati tenutisi a Sharm-el-Sheikh, in Egitto.

Innanzitutto le buone notizie. La maggior parte degli osservatori ha plaudito alla creazione di un fondo per le perdite e i danni, volto ad aiutare i Paesi del Sud particolarmente esposti agli impatti del riscaldamento.

I Paesi in via di sviluppo, e in particolare i piccoli Stati insulari (alcuni dei quali rischiano di scomparire nei prossimi decenni, inghiottiti dall’innalzamento del livello del mare) hanno inserito la creazione di questo fondo nell’ordine del giorno della conferenza fin dal primo giorno dei negoziati. In realtà, si tratta di una vecchia rivendicazione: è oggetto di scontri da tre decenni. I negoziati sono stati differiti per l’opposizione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, che hanno subordinato la loro adesione al fatto che anche la Cina (oggi al primo posto al mondo per l’emissione di gas a effetto serra) contribuisca a finanziare il fondo. Di fatto, è una delle prime volte che, nel corso di questi negoziati dell’Onu, il fronte dei “Paesi del Sud” si divide: una parte è favorevole al contributo cinese al fondo, un’altra ritiene che la Cina faccia comunque parte del “Sud” e quindi dovrebbe essere esentata dal finanziarlo. Avendo finito l’Europa con l’accettare di finanziare il fondo, anche gli Stati Uniti alla fine vi hanno aderito. I dettagli del nuovo fondo devono essere discussi nel corso del prossimo anno. Quali Paesi vi contribuiranno? E chi ne beneficerà? In che misura? I fondi stanziati si aggiungeranno ai finanziamenti già concessi dal Nord, per esempio, per l’aiuto allo sviluppo? Oppure i Paesi ricchi (e inquinatori) potranno limitarsi a riallocare alcune loro spese già esistenti? Tanti punti che restano da definire.

Le parti delle Nazioni Unite hanno convenuto sulla necessità d’investire almeno 4.000 miliardi di dollari all’anno (circa il doppio del Pil dell’Italia) nelle energie rinnovabili entro il 2030, e ancora di più nel decennio successivo. Le stime a cui siamo giunti nel Programma di Giustizia Ambientale della Georgetown Univesity, suggeriscono che probabilmente si tratta di una sottovalutazione ottimista. A nostro parere, da qui al 2035 si dovrebbero destinare agli investimenti verdi 90mila miliardi di dollari.

D’altronde, ed è la prima volta, la dichiarazione della COP27 precisa con forza che questi finanziamenti “richiederebbero una trasformazione del sistema finanziario, delle sue strutture e dei suoi processi”. Di fatto, la sfera finanziaria mondiale muove oggi più di 476mila miliardi di dollari (circa 4,7 volte il Pil mondiale), destinati solo in minima parte all’economia reale, e ancor meno al mondo delle energie verdi. Non ci sarà sicuramente una ridestinazione di queste ingenti masse di denaro verso investimenti verdi utili per il nostro futuro senza una vigorosa ripresa ad opera del settore finanziario attraverso la regolamentazione, e in particolare lo shadow banking, che si è considerevolmente sviluppato a partire dal 2009, proprio per sfuggire a ogni forma di regolazione.

La notizia che segue non dovrebbe essere considerata “buona” ma piuttosto normale: l’obiettivo del +1,5°C di riscaldamento viene sempre menzionato nella dichiarazione finale. Alcuni diplomatici hanno temuto, durante i negoziati, che venisse abbandonato. Nessuno si illude ancora che potremo restare al di sotto di questo limite massimo: con ogni probabilità purtroppo supereremo tale soglia fra qualche anno. Il mantenimento di questo obiettivo è semplicemente una garanzia relativa per i Paesi insulari che potranno esigere compensazioni finanziarie quando il loro territorio sarà scomparso e quando sarà evidente che la comunità internazionale non ha fatto quello che doveva fare per rispettare il mandato dell’Accordo di Parigi. È invece la prima volta che i rischi legati ai punti di non ritorno climatici (tipping points) vengono menzionati in un accordo. È un passo avanti, quantomeno nel lessico dell’Onu: questi punti di non ritorno (ad esempio, la fonte del permafrost siberiano) sono probabilmente la più grande minaccia geologica che incombe attualmente sull’umanità. Un altro passo avanti compiuto dalla COP27 è la creazione di un “programma di lavoro sulla transizione giusta”. La giustizia ambientale fa finalmente il suo ingresso nel programma delle Nazioni Unite.

Alcuni si aspettavano che la COP27 avrebbe avuto il coraggio di esigere la proibizione del carbone. Sono rimasti delusi. La COP27 punta a un «abbandono progressivo dell’elettricità prodotta a partire dal carbone non trattato» e a una «eliminazione progressiva delle sovvenzioni inefficaci ai combustibili fossili». A causa del blocco di diversi Paesi spaventati dalla crisi energetica, provocata in particolare dalla guerra in Ucraina, l’abbandono del gas e del petrolio non è stato inserito nella dichiarazione finale. Resta il fatto che gli impegni nazionali in materia di riduzione delle emissioni di CO2 non sono ancora sufficienti a rispettare il limite massimo del riscaldamento globale di +2°C entro la fine del secolo: anche supponendo che tutti faranno ciò che hanno promesso (e, in particolare, che la vittoria parziale dei Repubblicani alle midterms non impedisca l’attuazione della Inflation Reduction Act da parte dell’amministrazione Biden) stiamo comunque andando verso un riscaldamento globale superiore ai +3°C entro la fine del secolo. Ebbene, le nostre simulazioni suggeriscono che a quelle temperature interi settori della fascia tropicale potrebbero diventare inabitabili per gli esseri umani, il che significa centinaia di milioni di migranti climatici da qui a qualche decennio. Inoltre, esiste un divario tra gli impegni a lungo termine a favore della neutralità carbonica entro metà del secolo e le promesse fatte dai Paesi riuniti in Egitto a “breve termine”, ossia entro il 2030. Con questi presupposti, quale credito si può dare alle promesse a lungo termine dei Paesi inquinatori?

La prossima COP si terrà a Dubai. È possibile che il numero dei lobbisti specializzati nella difesa dei combustibili fossili — che ha superato quello dei diplomatici in Egitto e che ha costituito già un record quest’anno — sia ancora più alto. Nel corso della COP28 bisognerà fare un primo bilancio del Global Stocktake, dell’Accordo di Parigi. Nel frattempo la società civile, le Ong, le imprese, e naturalmente i governi, devono lavorare e battersi per mettere in atto le politiche climatiche necessarie all’attenuazione e all’adattamento. Alcuni climatologi formulano ormai l’ipotesi dell’estinzione dell’umanità provocata dalla nostra inazione di fronte al riscaldamento e alla distruzione della biodiversità.

di Gaël Giarud
e Loïc Giaconne