La vertigine spirituale
Venerdì scorso, nell’auditorium del Maxxi di Roma, è stato presentato il libro di Antonio Spadaro «Oltrecolore. Hopper Rothko Warhol Basquiat» (Milano, Vita e Pensiero, 2022, pagine 120, euro 15). Tra i relatori dell’incontro, introdotto da Giovanna Melandri, presidente della Fondazione Maxxi, l’artista visivo Gregorio Botta e il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione (di cui pubblichiamo l’intervento).
Se prestiamo attenzione al titolo dell’opera più recente di Antonio Spadaro, Oltrecolore, esso quasi si propone a noi come un ossimoro. Da un lato, perché, come ricorda l’autore, c’è un’intrinseca, una inconsutile relazione tra i colori e la vita. Ci viene ricordato che «l’esistenza è sempre radicalmente colorata» e che «non si può pensare una vita senza colori».
Il mondo viene a noi attraverso l’alfabeto dei colori (cromatico, sensoriale, spirituale) e, perfino quando cediamo alla tentazione di pensare la vita «in bianco e nero», non possiamo dimenticare che «il bianco e il nero sono colori».
Tutto è dunque colore. E tuttavia, l’avverbio «oltre», che nel titolo è strategicamente collocato in testa, sta lì come a indicare, più che un’affermazione, una tensione, poiché, se è vero che tutto è colore, non per questo cessiamo di essere costantemente convocati alla dislocazione, ad andare oltre, cioè a interrogarci sul limite che il visibile può rappresentare.
Ogni colore ha una sua storia
È risaputo come nel dibattito filosofico contemporaneo il colore sia diventato un vero campo di battaglia (si veda l’eccellente stato dell’arte delineato da Alice Barale, Il giallo del colore. Un’indagine filosofica, Jaca Book, Milano 2020). La domanda “che cos’è il colore?” è oggi preda di una forte esitazione in ordine a sapere se il colore sia una proprietà degli oggetti oppure sia il risultato della maniera in cui i nostri occhi, il nostro cervello e il nostro linguaggio elaborano gli oggetti. Già in un passaggio delle sue Ricerche filosofiche scriveva Wittgenstein: «Come posso riconoscere che questo colore è rosso? La risposta potrebbe essere che ho imparato l’inglese». E, risalendo fino all’epoca classica, è curioso costatare come le parole utilizzate dai greci per designare i colori non coincidano con le nostre.
In Omero, per esempio, il mare non è mai azzurro (è «biancastro», «color del vino», «color della viola»...), e una delle ipotetiche ragioni è che non esiste nella sua opera un vocabolo che designi inequivocabilmente il colore azzurro. In questa linea, Spadaro dice al lettore che «ogni colore ha una sua storia, che è anche sociale e sentimentale». C’è, infatti, una sociologia del colore e una storia privata che racconta il ruolo di certi colori nella nostra struttura autobiografica.
Ma l’autore va oltre. Afferma che questa storia è anche metafisica e persino teologica. E che per capirlo «basterebbe pensare ai colori della liturgia per svelare l’evidenza che il colore è ambiente del sacro». È in tale direzione che ci porta quest’opera.
Potremmo effettivamente definire Oltrecolore come una piccola mistagogia del colore, dove i pittori Hopper, Rothko, Warhol e Basquiat vengono presi a inattesi maestri informali di una ricerca che, attraverso il colore, ci proietta al di là di esso, sondando il silenzio, la possibilità e il senso.
La possibilità di rivelazione
Il libro che Vita e Pensiero pubblica in un momento opportuno ha una struttura efficace ed elegante. Nel prologo e nell’epilogo (chiamiamoli così), abbiamo una sorta di memoir. Per affrontare l’indispensabile nesso esistente tra i colori e la vita, Spadaro non si esime dal parlare della sua. La sua scrittura, che, come i suoi lettori ben sanno, raramente è autobiografica, assume in questo caso la forma di un «rapporto sentimentale», e questo la dice lunga sulla natura non solo del discorso teorico ma dell’insegnamento vitale che questa vibrante opera mette in moto. L’autore racconta degli episodi della sua infanzia, ricorda la madre, quello che per lui rappresentò la disciplina dell’iniziazione artistica, l’importanza che ebbe, a un certo punto del suo percorso, la pratica della pittura per la maturazione dello sguardo e l’apprendistato della libertà.
«Ricordo che non mi sentivo legato al dovere di rappresentare il mondo. Un monte poteva essere blu (...), o un albero rosso e così via. Il colore non mi veniva dall’oggetto, ma da un altrove più reale della fotografia. Da dove venisse non so esattamente. Ricordo, comunque, che ero affascinato...». E sarà sotto il segno dell’incantamento che, alla fine, il lettore troverà un breve sillabario dei colori. Lì abbiamo quasi la sensazione di trovare di nuovo lo Spadaro dell’infanzia, negli appunti che cercano di legare «l’esperienza trascendentale dell’Oltre propria del colore» alla «prosecuzione di una esperienza ordinaria». Ma il ragazzo che abbiamo cominciato a seguire alla scuola media a Messina si è costruito un’impressionante sapienza, appoggiato a quella finestra che è rappresentata dal colore, procedendo lungo questo canale.
Così ci spiega: «Se plasmo l’argilla rossa con le mie mani rosa, essa si modella secondo il volere delle mie mani ma non stinge, non si schiarisce. Il colore proclama una resistenza e costruisce una frontiera».
È un sapere importante, questo, su cui si fonda la possibilità di relazione con il colore. E, al tempo stesso, anche la possibilità di rivelazione che esso contiene.
La mano guantata e la mano nuda
L’amore per la letteratura di Carver (uno dei tópoi della mappa intellettuale e spirituale di Spadaro) si palesa nel metodo a cui l’autore ricorre per costruire i saggi sui quattro grandi pittori statunitensi che occupano la scena centrale del libro. Sì, è sempre l’intelligenza di un teologo che si mette in gioco. È sempre attraverso un’auscultazione di natura spirituale che si avanza. È sempre il disegno della scrittura di un teologo che noi seguiamo (e una delle cose di cui la teologia contemporanea è grata ad Antonio Spadaro è anche il rinnovamento della scrittura teologica).
Ma il respiro, la sensibilità e l’ambizione — quando ci avvicina a Hopper, Rothko, Warhol o Basquiat — sono quelli che ritroviamo nelle short stories di Carver. Spadaro scrive a proposito di ciascuno di loro una short story teologica. E short non solo alludendo alla dimensione dei testi, ma perché — e questa è la lezione di Carver, e forse anche la lezione che ci dà la modernità — si rende disponibile a valorizzare, della verità, non solo le proclamazioni definitive e monumentali, ma anche i suoi scintillii senza pretese, le insinuazioni tenui, le narrazioni quotidiane e minuscole, le briciole sminuzzate, le piccole rivelazioni.
Valorizzare non solo l’incontro, ma l’attesa, lunga, lancinante, vuota, indecifrabile, senza difese, come quella della donna che Hopper raffigura seduta a un tavolino tondo in un luogo di ristoro dove il cibo è servito da distributori automatici. «È seduta vicino all’ingresso, proprio davanti alla vetrata esterna, che però non lascia trasparire nulla da fuori... Una mano è guantata, l’altra nuda». Mi piace pensare che anche questo commovente breviario che padre Spadaro ci offre sia stato scritto non con la mano guantata, ma accogliendo il contributo e la bellezza dell’altra, la mano nuda.
Nell’ottica di Carver e Spadaro, più che chiudersi in sentenze finali bisogna riconoscere progressivamente, e senza chiasso, che la storia di ogni essere umano è abitata dal mistero di una forma che non sappiamo. Si veda, per esempio, l’elogio funebre di Andy Warhol fatto dal critico d’arte John Richardson, che Antonio Spadaro cita: «Vorrei richiamare un aspetto del suo carattere che egli nascose a tutti tranne che ai suoi amici più intimi: il suo lato spirituale. Coloro che tra voi lo hanno conosciuto in circostanze che erano in antitesi alla spiritualità potrebbero essere sorpresi che un tale lato esistesse. Ma questo c’era ed è la chiave della psiche dell’artista». Il metodo di Carver/Spadaro mette a nudo la vertigine spirituale della vita comune, ma senza alcuna enfasi, senza forzature, semplicemente con la decisione empatica di porsi accanto e in attesa. Come in quei versi in cui Carver dice: «vorrei alzarmi presto un’altra mattina, almeno. / E andare al mio posto con un po’ di caffè, per mettermi in attesa. / In attesa di vedere quel che accadrà».
Mistica allo stato selvaggio
Tra i quattro creatori americani citati, forse l’eccezione è Mark Rothko, la cui opera è consensualmente ravvicinata alla spiritualità. La sua ostinata ricerca di un’unità cromatica capace di esprimere il limite tra il sensibile e l’intelligibile, tra il presente e il trascendente, ci avvicina alla mistica apofatica. Per questo non sarà troppo sorprendente parlare dei suoi quadri come di icone.
Rothko stesso aveva detto — e Spadaro lo ricorda: «Quanti piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti». In Rothko le forme e i colori vanno al di là del mondo della rappresentazione e di fatto accolgono il mistero con un linguaggio religioso. La sua cappella a Houston ne è un esempio. Ma Spadaro parla di icone anche a proposito di Hopper, Warhol e Basquiat, e questo sicuramente ci strappa dalla nostra comfort zone. Ma tale spaesamento è un bene. Naturalmente non è questione di pensare queste opere intensissime ed emblematiche della contemporaneità allo stesso modo in cui il filosofo Pavel Florenskij pensava le icone, in cui egli vedeva una sorta di onda propagatrice della realtà divina stessa.
Florenskij, infatti, accusava la pittura religiosa dell’Occidente, iniziata nel Rinascimento, di essere una radicale falsità artistica, dal momento che gli artisti, pur protestando una stretta fedeltà alla realtà raffigurata, erano già slegati dalla realtà che pretendevano di rappresentare. Secondo lui, l’icona si contrappone alla tradizione pittorica che il Rinascimento ha sedimentato; non è una finestra attraverso cui lo spirito umano penetra nel mondo rappresentato, ma è la sublime iscrizione di una presenza. L’icona è la trasparenza visibile del vasto invisibile, specchio metafisico, squarcio di luce che fissa «spettacoli misteriosi e soprannaturali», secondo una massima di Dionigi l’Areopagita. È una prova ontologica dell’esistenza di Dio. Non è questo che Spadaro cerca. Su Andy Warhol, per esempio, chiarisce: «Il mondo di Warhol non è da decifrare, ma è decisamente decifrato nelle sue valenze di nulla, di vuoto. L’icona di Warhol è l’esatto opposto dell’icona orientale: è la sua immagine speculare… Non c’è spazio per Dio nell’arte di Warhol». Nondimeno, non omette di precisare che ciò che appare esattamente come un cancellare Dio costituisce, al contrario, «la sua salvaguardia»: «Dio è sempre “fuori” del quadro». L’icona di cui parla Florenskij è «immagine dell’eterno e della pienezza», quella di Warhol è «immagine dell’effimero e del vuoto». Ma, chiarisce Spadaro, «la forma e il procedimento espressivi sono i medesimi». E, più avanti: «Non sarebbe forse del tutto privo di fondamento l’intravedere in questo atteggiamento persino una forma di nostalgia dell’icona orientale, la potenza di rappresentazione della quale sarebbe ormai irrimediabilmente perduta, e dunque da preservare nella sua inviolabilità a livello del tutto privato. Da qui l’inevitabile ironia della replicazione seriale delle icone pop».
E allo stesso modo ci avvicina all’«irregolare e indisciplinato bisogno di salvezza» di Basquiat. Qui apparentemente abbiamo in campo, e in maniera geniale, solo «una visione allucinata». Ma, come ci fa capire Spadaro, «trapela da queste opere un inesausto e puro desiderio di bellezza; (…) un conflitto invincibile tra l’ossessione per la materia e una tensione spirituale». A proposito del piccolo gioiello che questo libro di Spadaro rappresenta, mi torna in mente quello che scrive una poetessa portoghese contemporanea: in certe situazioni, «l’iconoclasta / ricostruisce l’icona». Se pensiamo che il poeta Paul Claudel aveva confessato di ringraziare tutti i giorni Dio perché Rimbaud era esistito, dato che era per merito di quel «mistico allo stato selvaggio» che aveva imparato a rompere il guscio del visibile, non ci stupiremo che, dal punto di vista credente, si possa ringraziare per l’opera di Hooper, Rothko, Warhol e Basquiat.
di José Tolentino de Mendonça