· Città del Vaticano ·

Venti anni fa la visita di Karol Wojtyła al Parlamento italiano

Quando Giovanni Paolo II
parlò a Montecitorio

 Quando Giovanni Paolo  ii  parlò a Montecitorio  QUO-257
10 novembre 2022

Il ricordo di un giorno storico in un’intervista con Pier Ferdinando Casini


Il 14 novembre del 2002, Giovanni Paolo ii compiva una delle sue visite più brevi fuori dalla Città del Vaticano e tuttavia di portata storica, in particolare per le relazioni tra la Chiesa e lo Stato italiano. Quel giorno, infatti, per la prima volta nella storia repubblicana un Pontefice si recava a Montecitorio per rivolgersi ai parlamentari italiani riuniti in seduta comune. Quella visita, osservò Benedetto xvi tre anni dopo, «poté realizzarsi con l’affermarsi di una visione serena delle relazioni fra Chiesa e Stato», nella consapevolezza degli «impulsi altamente positivi che da tali relazioni hanno tratto, nel corso del tempo, sia la Chiesa che la Nazione italiana». Nel ventesimo anniversario della visita, l’allora presidente della Camera dei Deputati, Pier Ferdinando Casini — oggi presidente dell’Interparlamentare italiana — ricorda i momenti salienti di quel giorno e l’attualità del discorso pronunciato da Karol Wojtyła.

Presidente Casini, tra i tanti ricordi che avrà di quella memorabile giornata di 20 anni fa, quali sono quelli che restano maggiormente impressi nella sua memoria?

Ricordo soprattutto l’atmosfera di un’aula intimidita e composta, quasi fosse cosciente che un pezzo di storia la stava attraversando. Ricordo la figura fragile del Santo Padre, appesantita dalla vecchiaia e dalla malattia, la sua voce limpida e chiara, il suo volto sofferente e la mano destra alzata in segno di saluto. E ricordo soprattutto l’intervento, solenne ma concreto, con cui Papa Wojtyła richiamò tutti noi all’esempio e alla responsabilità. Un messaggio che, pur senza interferire negli affari italiani, interpellava con fermezza la politica chiedendoci di rintracciare il significato profondo dell’impegno politico al servizio dei cittadini e del “bene comune”.

La visita di Giovanni Paolo ii fu accolta con favore da tutte le forze parlamentari, non solo da quelle maggiormente in sintonia con la identità e la tradizione cristiana. Lo stesso presidente Ciampi sostenne la sua iniziativa di invitare il Papa a Montecitorio. Quali fattori portarono ad una tale convergenza?

Il presidente Ciampi colse immediatamente il valore simbolico di quella visita che, ricordo bene, ebbe l’unanimità di tutti i membri della Camera e del Senato. Tutte le forze politiche, di maggioranza e opposizione, fossero credenti o meno, percepirono il valore istituzionale e politico di questo evento e tutti i membri del Parlamento furono all’altezza della dimensione storica di questa visita. Io sapevo che già i presidenti Mancino e Violante avevano provato ad organizzarla ed è per questo che, nello spirito di continuità istituzionale, decisi di presentare l’invito come il compimento di un percorso iniziato nella legislatura precedente. Diversamente, visto il clima incandescente di quegli anni, contrassegnati da aspre polemiche fra la sinistra e il governo Berlusconi, credo che difficilmente quest’iniziativa avrebbe potuto concretizzarsi. Durante tutta la fase preparatoria ho sempre potuto contare sulla piena solidarietà del Quirinale, del Governo, della Segreteria di Stato vaticana, della Presidenza della Conferenza episcopale italiana — guidata allora dal cardinale Camillo Ruini — e del cappellano della Camera dei Deputati, monsignor Rino Fisichella.

Nel suo indirizzo d’omaggio, lei sottolineò l’amore per l’Italia di un Papa polacco, il primo Pontefice non italiano dopo 4 secoli e mezzo. Questo amore si vide anche quel giorno, Wojtyła anziano già malato non volle mancare questa storica occasione...

La sua visita e quel «Dio Benedica l’Italia», pronunciato con fatica al termine del suo lungo intervento, furono un grande atto di amore verso l’Italia e verso gli italiani. Un amore totalmente ricambiato. Nel suo primo discorso, il giorno della sua elezione, con l’espressione «se mi sbaglio mi corrigerete» aveva già conquistato tutti, compresi quanti avevano manifestato dubbi sul fatto che il nuovo Papa fosse straniero. Un uomo polacco, venuto da una storia indelebilmente segnata dal comunismo sovietico, aveva maturato con il nostro Paese un rapporto così straordinariamente forte che, nell’intervento al Parlamento, trovò il suo apogeo più significativo.

È stato un Papa tanto amato proprio perché la sua santità si è sempre manifestata in un’umanità piena e la cui grandezza è costantemente emersa anche nella dimensione di piccoli gesti.

La ricerca continua di vicinanza ad ogni essere umano, specie ai più deboli e ai più sofferenti, lo hanno reso un Pastore in grado di attrarre e sedurre anche tanti non cristiani e non credenti. L’invocazione «Santo subito», salita prepotentemente dalla folla in piazza San Pietro appena appresa la notizia della sua morte, fu la dimostrazione icastica dell’amore incondizionato verso questo straordinario interprete della complessità della Chiesa e della nostra epoca.

Rileggendo a 20 anni di distanza quel discorso se ne coglie la straordinaria attualità e anche la particolare sintonia con il magistero di Francesco. Karol Wojtyła disse che l’Italia aveva bisogno di «incrementare la sua solidarietà e coesione interna». Questo è un appello che non ha perso di forza e anzi oggi è perfino più urgente...

Il Papa non chiese solo al Paese di «incrementare la sua solidarietà e coesione interna», ma sottolineò come le sfide che stanno davanti ad uno Stato democratico esigono da tutti, indipendentemente dall’appartenenza politica di ciascuno, un’intensa collaborazione per la realizzazione del bene comune. Un appello che non solo continua a essere attuale ma che è indubbiamente in straordinaria continuità con l’insegnamento di Papa Francesco. Anche Papa Bergoglio, infatti, a cominciare dalla nota enciclica Laudato si’, ha più volte sottolineato come la buona politica è quella che mette al centro la persona umana e il bene comune e che lotta per una società più giusta e solidale. L’Italia, nonostante le disparità fra nord e sud e le crescenti diseguaglianze sociali, è ancora una nazione molto coesa. E questo, in parte, si deve anche al ruolo del papato.

Giovanni Paolo ii si rivolse all’Italia ma furono molti e significativi anche i riferimenti all’Europa. Da europeista convinto, Wojtyła mise in guardia da una visione continentale schiacciata solo sugli aspetti economici e politici. Oggi come risuona questo richiamo?

Il ruolo svolto dal Papa polacco nel processo di democratizzazione dell’Europa orientale, culminata nella caduta del muro di Berlino, è ben noto. Anche quel giorno nel suo intervento non volle distogliere il suo sguardo dall’Europa. Uno dei passaggi fondamentali riguardò appunto l’identità cristiana dell’Europa. All’epoca, l’inclusione di riferimenti all’eredità cristiana nel preambolo del Trattato costituzionale dell’Unione europea suscitò un ampio dibattito. In nome di un astratto laicismo, quei riferimenti non furono inseriti: in realtà non si presero le distanze solo da una religione, ma dall’insieme di valori che hanno generato le nostre democrazie.

Il Papa, quel giorno, ci mise in guardia rispetto alla deriva di un relativismo etico assai preoccupante per un’Europa che deve aprirsi agli altri senza dimenticare qual è la sua storia, quali sono le proprie tradizioni e i propri profondi elementi identitari. Pur avendo contribuito al collasso del comunismo sovietico, Papa Wojtyła non si è limitato all’antagonismo verso i totalitarismi. Ha rivolto la sfida anche alle società occidentali, leggendo per tempo il grande smarrimento europeo.

Oggi che, a distanza di 20 anni, ci siamo trovati a dover fronteggiare una pandemia mondiale e ad assistere a un conflitto nel cuore dell’Europa possiamo comprendere ancora meglio quanto importanti fossero queste raccomandazioni e quanto fondamentale sia una sempre maggiore integrazione europea.

Dei tanti temi che il Papa toccò nel suo intervento, dalla condizione dei carcerati alla difesa della vita, dalla centralità del bene comune nell’azione politica al valore intangibile della persona, quale fu quello che più la colpì e per quali ragioni?

Sicuramente quando ci richiamò tutti ad una attenzione più viva e coerente verso i più deboli chiedendo espressamente un atto di clemenza verso i detenuti che — disse — «vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento». Il giorno dopo, i giornali erano pieni di articoli che raccontavano l’esplosione di gioia nelle carceri dove tutti i detenuti avevano ascoltato in diretta televisiva l’intervento del Papa. Quattro anni dopo, il 29 luglio 2006, pur non senza polemiche, il Parlamento approvò l’indulto. Una scelta di umanità le cui premesse vanno rintracciate nell’auspicio espresso da Papa Wojtyła proprio durante quella storica visita in Parlamento. Tuttavia quello del sovraffollamento delle carceri rimane ancora un tema attuale, un’emergenza su cui anche Papa Francesco ha preso una posizione decisa per scuotere quanti nelle istituzioni ricoprono incarichi di responsabilità. Mi auguro che, ancora una volta, la voce del Santo Padre possa essere ascoltata.

A 20 anni di distanza, qual è secondo lei l’eredità più duratura che quella visita a Montecitorio ha lasciato nelle istituzioni della Repubblica e più ampiamente nel mondo politico italiano?

L’eredità di Papa Giovanni Paolo ii è immensa. Ma credo che l’aspetto più emblematico del suo pontificato riguardi la sua capacità di parlare a tutti, non solo a chi aveva il dono della fede. Con quella visita, Papa Wojtyła riuscì a rassicurare quanti temevano che potesse rappresentare la sconfitta dello spirito laico della Repubblica e una violazione dell’autonomia della massima istituzione rappresentativa e dimostrò, anche ai più scettici, la differenza che deve esistere fra uno Stato “laico” e uno “laicista”. La sua straordinaria disposizione nei riguardi della persona umana, la sua propensione ad abbracciare l’esistenza in tutta la sua complessità, a non negarsi mai al confronto con le esperienze più diverse hanno reso tutto il suo pontificato dirompente ed innovativo. In tutto il suo magistero, san Giovanni Paolo ii non si è mai assoggettato alle censure preventive di chi voleva un capo della Chiesa di comodo ma, sulle questioni che gli stavano più a cuore — come la famiglia e il matrimonio — ha avuto il coraggio di affrontare i rischi di posizioni anche impopolari. Per questo, Karol Wojtyła non è stato solo uno dei più grandi Pontefici del ’900, ma anche — sotto molti punti di vista — una delle figure sociali di “rottura” più importanti del “secolo breve”, che ha segnato con una forte impronta tanti ambiti della vita delle persone, della politica, della Chiesa e della società.

di Alessandro Gisotti