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La buona notizia
Il Vangelo della XXXII domenica del tempo ordinario (Lc 20, 27-38)

Una sposa per sette fratelli?

 Una sposa per sette fratelli?  QUO-253
05 novembre 2022

I secoli scorrono. Innumerevoli sette fratelli che cercano di darsi l’un l’altro la vita. Si passano il tempo. Ma ognuno consegna all’altro la sterilità di un fallimento. E un’inconscia, irrisolta angosciosa domanda. Quando nell’estremo istante anche il tempo finirà, di chi sarà la vita? Chi non riesce a credere nel “per sempre” resta ingabbiato nel “per ora”. Ripetitivo, beffardo e canzonatorio. Come l’apologo dei sadducei. Perfetta messa in scena di un dramma. Impeccabile interpretazione della paradossale vicenda dell’uomo. Imprigionato tra il tempo e la morte. Con la carne che brucia di vita ed eternità. Anche i sadducei sono uomini. Anche i sadducei sono vivi. E nella vita scorre la resurrezione. Ogni uomo lo sa. La vita non può morire. Ogni uomo lo grida con tutto se stesso. A volte a denti stretti. Serrati dalla paura. Paura. Perché la vita rimbalza di marito in marito, di generazione in generazione, di giorno in giorno. Di istante in istante. E inevitabilmente si scontra. Con una fine. Paura. Che sia tutto una storiella derisoria. Con dentro una lacerante domanda di senso. Umorismo che sfrigola di dolore — direbbe Pirandello.

C’è un desiderio di vita nella storia dei sette fratelli. Che è già di per sé una risposta. Ma solo per chi, come i poeti, ha occhi per vedere «la resurrezione come un movimento/già iniziato nelle cose» (Rondoni). L’ana-stasi è già contenuta nell’ipo-stasi. E non è solo un gioco di lettere e di parole. L’essenza che rende viva la realtà è la stessa che la fa risorgere. È nella vita che inizia la resurrezione. Anastasi. Nel fondamento sostanziale delle cose. Ipostasi. Nella forza divina dell’amore che le sostiene e le mette in movimento. Le spinge nel cammino verso la Vita. Fino a scontrarsi con la morte. L’anastasi è una luminosa esplosione dell’ipostasi. Un potente cambio di prefisso che porta in alto (ana) ciò che sta sotto (ipo). Nel cuore della realtà. E le dà perfetto compimento. Sfolgorante realizzazione. Gesù ha negli occhi la resurrezione. E con la resurrezione negli occhi ascolta i suoi interlocutori. Figli della resurrezione che non riconoscono la loro discendenza. E si accontentano di essere figli adottivi di una realtà destinata a morire. E con la resurrezione negli occhi. Dalla profondità della loro vicenda esistenziale. Le nozze. La vita. La morte. La storia dei padri. Dai luoghi più intimi del loro cuore. Inizia ad allargare loro lo sguardo. Verso l’eternità. A prendere ciò che di vivo c’è nella loro esistenza. Per trasformarlo in resurrezione. «Ab saeculo hoc ad saeculum illum». «All’eterno dal tempo» (Paradiso, xxxi).

Perché l’eternità è il tempo che spogliato dalla morte vive per sempre. Tempo risorto. In cui non si prende moglie o marito. Ma innumerevoli due sono una carne sola. Una sola luce. Una sola fiamma. Un corpo solo. Cristo e la Chiesa. Banchetto di nozze senza fine. Tempo risorto. Eterno presente. In cui non si muore né si dà la vita. Ma tutto esiste – «legato con amore in un volume» (Paradiso, xxxiii) – nel perfetto “Io sono” del Padre. Tempo risorto. In cui le anime sfolgorano di luce come angeli. E i corpi di più. «Carne gloriosa e santa» (Paradiso, xiv). Che brilla perché ama. E ama perché vede Dio. Arde. Ma non si consuma. Roveto aguzzo e spinoso. Trasfigurato dalla luce. Rinato nell’amore. Scintille guizzanti di un Dio che parla dal fuoco. E infiamma la storia. E ogni uomo vivo. Abramo. Isacco. Giacobbe. E tutti quelli che vivono per Lui. Un giorno tre uomini scendevano da un monte. Si chiedevano. Cosa vuol dire risorgere dai morti? Avevano negli occhi in vesti sfolgoranti la risposta. Come Mosè il roveto ardente. Come i sadducei il volto di Colui che è la Risurrezione e la Vita. Avevano negli occhi la risposta. Come ogni uomo. Che riconosce nello splendore vitale della realtà il cammino inarrestabile della resurrezione.

Negli occhi la risposta. E nel cuore un’intima esultanza: «Hai parlato bene, maestro». Avevano negli occhi la risposta. E nel cuore nessun’altra domanda. 

di Enza Ricciardi